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MARY

Dopo tutto un pomeriggio, finalmente la zucca è pronta! Me la sono procurata ieri sera; Mary, la ragazza a cui l'ho presa, all'inizio, non era davvero entusiasta di lasciarmela… ma alla fine l'ho convinta.
Era la prima volta che ne prendevo una, una così speciale. Pensavo sarebbe stato più difficile. Invece il peggio è venuto dopo. Tutto doveva essere praticamente perfetto. Così ho fatto un'incisione nella parte superiore, l'ho scoperchiata e l'ho svuotata di tutta quella purea maledetta che la riempiva. Le mani grondavano di poltiglia e sugo ma, alla fine, sono riuscito a svuotarla. Poi è stata la volta degli occhi. Il lavoro era delicato, come potrete immaginare: ho tirato via i bulbi con un cucchiaino, ho reciso i nervi ottici e, con dell'ovatta, ho lucidato le orbite. Infine sono passato alla bocca. I denti li ho strappati via quasi tutti: incisivi, canini e premolari, con una pinza da bricolage. Ho tirato la lingua fuori e tagliato con un coltello da arrosto… un taglio solo, netto. Infine, per tenerla aperta, ho messo tra le mandibole due pezzi di ferro, a mantenerla in posizione da urlo. Ho infilato una candela accesa, proprio dov'era la lingua ma, diavoli, la luce non voleva saperne di venire fuori anche dagli occhi. L'unica soluzione possibile era quella di aprire dei punti luce, dal palato dritti nelle cavità orbitali. Ce ne ho messo di tempo… mi sono riempito la faccia di schegge d'osso e ho saturato la stanza di puzzo d'unghie bruciate, ma adesso anche Mary splende dietro la mia finestra, dritta verso la strada. Adesso aspetto. Quest'anno non ho paura di restare senza dolcetti per i bambini del paese: ho confezionato una marea di pacchettini splendidi con quel restava di Mary… davvero tanto. Qualcuno sta per bussare, lo so! "Dolcetto o scherzetto?quot;



:shock: :shock: :shock: :shock: :shock:

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MARY

Dopo tutto un pomeriggio, finalmente la zucca è pronta! Me la sono procurata ieri sera; Mary, la ragazza a cui l'ho presa, all'inizio, non era davvero entusiasta di lasciarmela… ma alla fine l'ho convinta.
Era la prima volta che ne prendevo una, una così speciale. Pensavo sarebbe stato più difficile. Invece il peggio è venuto dopo. Tutto doveva essere praticamente perfetto. Così ho fatto un'incisione nella parte superiore, l'ho scoperchiata e l'ho svuotata di tutta quella purea maledetta che la riempiva. Le mani grondavano di poltiglia e sugo ma, alla fine, sono riuscito a svuotarla. Poi è stata la volta degli occhi. Il lavoro era delicato, come potrete immaginare: ho tirato via i bulbi con un cucchiaino, ho reciso i nervi ottici e, con dell'ovatta, ho lucidato le orbite. Infine sono passato alla bocca. I denti li ho strappati via quasi tutti: incisivi, canini e premolari, con una pinza da bricolage. Ho tirato la lingua fuori e tagliato con un coltello da arrosto… un taglio solo, netto. Infine, per tenerla aperta, ho messo tra le mandibole due pezzi di ferro, a mantenerla in posizione da urlo. Ho infilato una candela accesa, proprio dov'era la lingua ma, diavoli, la luce non voleva saperne di venire fuori anche dagli occhi. L'unica soluzione possibile era quella di aprire dei punti luce, dal palato dritti nelle cavità orbitali. Ce ne ho messo di tempo… mi sono riempito la faccia di schegge d'osso e ho saturato la stanza di puzzo d'unghie bruciate, ma adesso anche Mary splende dietro la mia finestra, dritta verso la strada. Adesso aspetto. Quest'anno non ho paura di restare senza dolcetti per i bambini del paese: ho confezionato una marea di pacchettini splendidi con quel restava di Mary… davvero tanto. Qualcuno sta per bussare, lo so! "Dolcetto o scherzetto?quot;



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Dopo tutto un pomeriggio, finalmente la zucca è pronta! Me la sono procurata ieri sera; Mary, la ragazza a cui l'ho presa, all'inizio, non era davvero entusiasta di lasciarmela… ma alla fine l'ho convinta.
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susan, a samhain


Il rosso e l’oro sembravano essersi impossessati della Terra, con le loro pacate o sferzanti pennellate mosse dal vento d’autunno… Gli alberi dei parchi cittadini e gli alti faggi che delimitavano i viali avevano ormai da qualche settimana iniziato nuovamente il loro annuale rito di speciale policromia stagionale inviando su tetti ed asfalti migliaia di loro "messaggere": passate cantanti di primavera, foglie che, solo qualche mese prima, erano rigogliose e verdi, nella danza armonica di fusione con il cielo, di anelito alla stella della vita che gli uomini chiamano Sole……
Chi dice che l’autunno è una stagione triste o malinconica non ha capito nulla della magia perennemente vitale delle stagioni, che sono il respiro della natura. L’autunno è come una musica barocca, ed i suoi florilegi di colori caldi - di foglie o ricci di ippocastano che preludono a più intime introspezioni domestiche che ben presto porteranno gli uomini a sentire il bene atavico della dimora protettrice, cadendo a terra, o facendosi trasportare nell’aria, lontano - mi ricordano le scale armoniche di Vivaldi, di Bach o di Telemann…
Susan Woodhouse era una bimba che queste cose le aveva sempre sentite, fin da quando aveva pochi anni: sembrava che, d’autunno, il suo giovane spirito si animasse di una strana euforia e provasse un grande piacere nel tuffarsi nei cumuli di foglie morte accatastate dagli spazzini o nel raccogliere ricci di ippocastano da terra, incurante delle punture che spesso martoriavano le sue manine. La sua cittadina era una tipica cittadina inglese, ordinata e borghese ma con la fortuna di essere immersa in una natura dolce e bellissima, in una terra che nasconde, forse, il mistero della vita intima, profonda, del nostro intero pianeta; credo che questo mistero fosse conosciuto ed onorato dai nostri progenitori, quando il tempo non era malato di apparenza e l’uomo non aveva ancora abbruttito sé stesso con la schiavitù del solo visibile. Dalle parti di Susan, la gente conservava ancora, sepolto in qualche angolo delle memorie ataviche ereditate da generazioni di uomini che, di quella terra, vivevano, una sorta di innata consapevolezza, un discreto quanto spesso inconsapevole colloquio di elezione con gli "spiriti delle lande", con le forze nascoste che ne vivificavano la linfa.
Susan sembrava essere venuta da quell’imprecisabile passato e, crescendo, quella sua strana predilezione per l’autunno, quella incontenibile euforia che la portava ad intrattenersi per ore nei parchi cittadini o nei boschi delle immediate vicinanze dell’agglomerato urbano, divenne sempre più una particolarità irrinunciabile della sua vita.
Quando, poi, il calendario scandiva il trascorrere dei giorni in prossimità del fatidico 31 ottobre, Susan avvertiva quasi una frenesia incontenibile. Mentre le sue amichette ed i compagni di scuola si accontentavano di girare le strade bussando di porta in porta per il tradizionale gioco del "TRICK-OR-TREATING", nel rituale ricatto che perpetravano al distratto mondo degli adulti e si mascheravano da streghe, folletti, spiriti e scheletri, Susan, che a volte era stata quasi trascinata dai compagni in quella parodia che trovava essenzialmente banale, faceva risuonare nella sua mente l’antica cantilena:

"A soul cake!
A soul cake!
Have mercy on all Christian souls, for
A soul cake!"

(Abbi pietà per tutte le anime Cristiane/per una torta dell'anima)

A 11 anni, la bimba rispose al "richiamo" di Samhain… Non sapeva cosa fosse ma sentiva che quel nome era come una specie di chiave. L’aveva, forse, letto da qualche parte, in qualche libro di leggende che il papà gli aveva regalato nel fugace tempo dell’infanzia. Susan sembrava rapita, dai quei racconti.
"Sei proprio una piccola strega, come tua mamma!…" - si divertiva a dirle Dick Woodhouse stuzzicandola giocherellando coi i suoi riccioli ramati incapace di non pensare alla madre di Susan, che un giorno la foresta gli aveva portato via…
Quell’anno, la strana cantilena dello "Samhain" cominciò a risuonare ossessivamente quanto delicatamente nella testa della bambina tornando dal doposcuola, in quelle ore in cui il Sole sta per farsi accogliere dal grembo mistico della figlia Terra ed il vento fa danzare in muliebri mulinelli le foglie distese al suolo in fittizi tappeti.
"Samhain"…… Samhain!"….. udì quell’anno nella mente allo scostare con i piedi dei cumuli di foglie. Era la sera del 31 ottobre. La bambina portava in una mano la cartella e, con l’ altra, sorreggeva una zucca contenente un cero acceso che le avevano dato a scuola e che avrebbe dovuto portare così fino a casa pena l’arrabbiatura degli spiriti malvagi… E la voglia di tornare a casa, quella sera, era davvero poca… Poi, la bambina si fermò, i piedini sommersi da onde screziate di rosso ed oro…
Alzò lo sguardo alla sua destra, oltre i bassi filari di case e villette del suo tempo distratto, ed andò a perdersi nei boschi e nei declivi delle regioni a cavallo fra Wiltshire e Somerset… Restò così, assorta, per minuti indefinibili… poi le parve di vedere come delle lunghe mani protendersi da quegli alberi lontani e vicini al tempo stesso, mani che facevano un gesto armonico, sincronizzato ed inequivocabile: chiamavano Susan a sé…
Chi era, ormai, in quel momento, Susan?… Perché lasciò cadere a terra la cartella ed assunse quella strana luce di sogno nei suoi grandi occhi verdi?… Non lo sapremo mai.
"Samhain"… "Samhain!"… sentiva ripetutamente fuori e dentro di sé la bambina, come una cantilena che l’attirava irresistibilmente…
Attraversò cortiletti privati e scavalcò piccoli muri di sassi antichi, posti su quei crinali chissà quanti secoli prima da uomini che conoscevano, forse, il segreto di quella voce.
Attraversò campi di grano ormai giunti da tempo al termine del loro ciclo annuale e… si sentì vitalizzata, preda di un indescrivibile gioia, di un benessere tale da farla piangere…
"Ah, papà, papà!… Perché non sei qui con me, ora?…", pensò Susan per un attimo.
"Forse andiamo verso la casa di mamma… Io è… *so* che lei è là, Papà…."
Ma, poi, quello strano salmodiare, quelle braccia magre, avvolte da panni sfrangiati, scuri, lunghi, la chiamarono ancor più irresistibilmente verso la boscaglia, sulle "Hill" che forse non avevano mai avuto niente a che fare con il mondo degli uomini…
"Samhain"… "Samhain!"… E Susan alzò la zucca con il cero acceso al suo interno verso gli alti alberi che non le avrebbero fatto, ne era certa, alcun male…
"Samhain"… "Samhain!"… E il sole calò dietro le "Hill"…
Ogni anno, da allora, Dick Woodhouse, che non era mai riuscito a piangere per la scomparsa della sua unica figlia, si spinge fino ai limiti della cittadina in cui era nato e vissuto. Gli occhi sono sempre lucidi, velati da un pianto nobile e dolcissimo che nessuno poteva capire davvero. Ad un certo punto, l’uomo si ferma e guarda lontano, oltre le "Hill"… E’ allora che le sue labbra si piegano in un abbozzo di strano quanto sereno sorriso.
"Samhain"… "Samhain!"… canta la voce di Susan da qualche parte, laggiù… Un’eco più lontana, di voce femminile, ripete le parole di Susan:
"E’ Samhain, papà… Ti aspettiamo…"

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martedì 21 ottobre 2008, ore 18:20
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madòòò irè :shock:

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è iniziato tutto nel silenzio e finirà nella stessa maniera...in silenzio...anche se le grida,le urla saranno solo dentro...


martedì 21 ottobre 2008, ore 18:37
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MARY

Dopo tutto un pomeriggio, finalmente la zucca è pronta! Me la sono procurata ieri sera; Mary, la ragazza a cui l'ho presa, all'inizio, non era davvero entusiasta di lasciarmela… ma alla fine l'ho convinta.
Era la prima volta che ne prendevo una, una così speciale. Pensavo sarebbe stato più difficile. Invece il peggio è venuto dopo. Tutto doveva essere praticamente perfetto. Così ho fatto un'incisione nella parte superiore, l'ho scoperchiata e l'ho svuotata di tutta quella purea maledetta che la riempiva. Le mani grondavano di poltiglia e sugo ma, alla fine, sono riuscito a svuotarla. Poi è stata la volta degli occhi. Il lavoro era delicato, come potrete immaginare: ho tirato via i bulbi con un cucchiaino, ho reciso i nervi ottici e, con dell'ovatta, ho lucidato le orbite. Infine sono passato alla bocca. I denti li ho strappati via quasi tutti: incisivi, canini e premolari, con una pinza da bricolage. Ho tirato la lingua fuori e tagliato con un coltello da arrosto… un taglio solo, netto. Infine, per tenerla aperta, ho messo tra le mandibole due pezzi di ferro, a mantenerla in posizione da urlo. Ho infilato una candela accesa, proprio dov'era la lingua ma, diavoli, la luce non voleva saperne di venire fuori anche dagli occhi. L'unica soluzione possibile era quella di aprire dei punti luce, dal palato dritti nelle cavità orbitali. Ce ne ho messo di tempo… mi sono riempito la faccia di schegge d'osso e ho saturato la stanza di puzzo d'unghie bruciate, ma adesso anche Mary splende dietro la mia finestra, dritta verso la strada. Adesso aspetto. Quest'anno non ho paura di restare senza dolcetti per i bambini del paese: ho confezionato una marea di pacchettini splendidi con quel restava di Mary… davvero tanto. Qualcuno sta per bussare, lo so! "Dolcetto o scherzetto?quot;



:shock: :shock: :shock: :shock: :shock:

orripilante :shock:


PUH...
passa un carretto di lana e cotone......... :lol:

vero che si ?


si

veo che no ?


no

è vero che tu vuoi uscire da quì ?


spero che esci prima tu.........da questo corpo... :lol: :wink:

i'm owned by the keys ! :lol: :lol:


Che significa? :?

sono posseduto dalle chiavi :lol: :lol: :lol:

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martedì 21 ottobre 2008, ore 19:03
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Mephisto (dionisio) ha scritto:
sono posseduto dalle chiavi :lol: :lol: :lol:


sei chiavato insomma!!!


mercoledì 22 ottobre 2008, ore 9:25
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ZiuPeppi ha scritto:
Mephisto (dionisio) ha scritto:
sono posseduto dalle chiavi :lol: :lol: :lol:


sei chiavato insomma!!!

semmai ho chiavato !

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mercoledì 22 ottobre 2008, ore 13:50
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halloween in bluAncora.»


Era un Freddy Kruger particolarmente esigente e tracagnotto: la razione non gli era bastata, ed era rimasto con le braccia grassocce tese, la bocca seria come un funzionario delle tasse, mentre le lame di plastica si staccavano dal guanto. Frank sorrise e gli versò altri dolcetti alla cannella e al miele, a forma di ossa e teschi. Il bambino non disse niente, scappò fuori dal giardino come un ladro dopo un colpo favoloso.
Frank chiuse la porta, spense il sorriso e tornò in salotto. Si lasciò risucchiare dalla sua vecchia poltrona. Era cominciata la grande maratona horror alla TV. Di là dello schermo un mostro verde era emerso da una palude e si stava dirigendo verso le luci di un paese, ma Frank non riusciva ad appassionarsi alla storia.
In quella notte gli spiriti tornavano a mescolarsi con gli uomini, e le persone morte l’anno prima avrebbero potuto trovare un nuovo corpo per tornare in vita. Se avesse prestato fede alle leggende su Halloween, quella avrebbe potuto essere la sera buona per sperare ancora, ma Frank era così vuoto che spesso udiva la propria voce e non credeva neppure di esistere. Quella sera era buona soltanto per una commemorazione funebre.
Dave.
Si aggrappò alla bottiglia di birra in bilico sul bracciolo come se fosse uno sperone di roccia. Si sentiva cadere. In realtà era già da un anno che cadeva. All’inizio, aveva cercato in tutti i modi di tirare avanti: si era tuffato nel lavoro, ma il dolore non diminuiva. Ogni giorno che passava era come un nuovo carico di terra che un camion gli scaricava addosso, e la festa di Halloween lo aveva sorpreso vuoto, e con la certezza che tutto quello che doveva succedere era ormai successo.
Dietro lo schermo del televisore il mostro si era appostato in un vicolo buio, in attesa della sua prima vittima.
Dave impazziva per i film dell’orrore, e fu nel reparto horror di un negozio di noleggio che i due si erano incontrati per la prima volta, il 31 ottobre di due anni prima. Lui, un giovane professore di chimica, e Dave, un ventiquattrenne che lavorava al fast food della zona. Si erano scontrati di fronte al DVD di Profondo Rosso - roba vecchia d’importazione - e Frank aveva perso l’equilibrio cadendo a terra. Quando Dave gli tese la mano per aiutarlo e scusarsi, Frank vide che tremava. Lo aveva rassicurato dicendo che non era successo niente, ma il giovane si era fatto piccolo piccolo e Frank temette che potesse mettersi a piangere. Fu proprio la timidezza di Dave a permettergli di scambiare qualche parola più del dovuto, e mentre riusciva a strappargli un sorriso, notò che il viso del giovane era come un’alba pulita dalla pioggia, con grandi occhi azzurri, e la sua pelle liscia gli ricordava il latte. Quella notte fu la più agitata degli ultimi anni. Del resto, da troppo tempo Frank era alla deriva in una solitudine che non sembrava avere fine. Cominciò a frequentare il fast food dove Dave lavorava, e a poco a poco riuscì a farci amicizia.
Un suono acuto risalì le sue orecchie. Frank riemerse dai ricordi. In TV c’era un ispettore di polizia accanto al corpo martoriato di una donna. Evidentemente il mostro verde era riuscito nel suo intento omicida. Quel suono tornò. Il campanello. Dietro la porta c’era un rumore impaziente. Frank si alzò e si trascinò fino all’ingresso, prendendosi il tempo per riaggiustare un’espressione simpatica sulla faccia.
«Dolcetto o scherzetto?» Erano due zombi e uno scheletro.
«Dolcetto! Dolcetto!» sorrise Frank. Allungò una mano su un mobile e pagò allo scheletro, che sembrava essere il capo, la salvezza per quella sera. Il ragazzo, diffidente, guardò nel suo sacchetto e prese in mano uno dei dolci appena ricevuti: era un biscotto, grande quasi come il suo palmo, a forma di cuore, e con la glassa che disegnava un piccolo e simpatico teschio al centro.
«Sono bellissimi!»
«E buonissimi!» aggiunse Frank. «Li ho fatti con le mie mani. È una mia idea.»
Lo scheletro parve non sentire le parole di Frank. Si infilò il sacchetto sotto il mantello e fuggì. I due zombi lo inseguirono, dopo aver dato un’occhiata stupita alla zucca colorata che Frank teneva in bella vista sulla finestra. Almeno quei tre avevano notato i biscotti che aveva cotto apposta per i ragazzi della zona. Invece, molto probabilmente, il Freddy Kruger di prima li aveva inghiottiti senza neppure guardarli.
Chiuse la porta e tornò in salotto. Si ributtò sulla poltrona in cerca di una birra. Aveva scoperto che Dave viveva con il padre, un severo ex-colonello dell’esercito, o qualcosa del genere, mentre la madre era morta tanti anni prima, quando lui era ancora piccolo. Il ragazzo aveva fatto dentro e fuori in un mucchio di centri specializzati nella cura delle malattie nervose. Frank era convinto che Dave non avesse nessun problema, ma che fosse solo un ragazzo eccezionalmente sensibile. Non aveva amici se non qualche conoscenza superficiale al lavoro. Con gli estranei era taciturno e abbastanza nervoso, e a volte, quando la situazione gli procurava imbarazzo, perdeva il controllo e poteva apparire come uno che avesse dei problemi mentali. Ma Frank era certo che fosse un mezzo genio. Avevano stabilito una sintonia fin dal primo incontro, e Dave riuscì ad aprirgli il suo universo. Non andava all’università, ma leggeva moltissimo, e sapeva inventare certe storie fantastiche o improvvisare per scherzo delle poesie che lasciavano Frank sempre esterrefatto. Era chiaramente un ragazzo che soffriva, anche per il fatto che viveva la sua omosessualità come una colpa segreta. Ma il padre era convinto che Dave fosse malato, e quando tornava a casa sventolava sotto agli occhi del figlio confezioni di nuovi antidepressivi e indirizzi di importanti specialisti. Per un mese il ragazzo fu costretto a soggiornare in un istituto a Philadelphia, e fu allora che Frank capì di non poter vivere senza di lui. Aveva una paura terribile di perderlo, ma il giorno che Dave fece ritorno a casa ogni muro crollò.
Quella sera erano usciti da un cinema, e non la smettevano di commentare il film horror appena visto. Frank sentiva l’odore intenso della pelle del compagno, mescolato con la fragranza di cocco che saliva dai fianchi, dal petto. Le mani del ragazzo non tremavano e il viso guardava con serenità la gente. All’improvviso Dave si voltò verso di lui e gli disse: “sto veramente bene con te”, e questo era tutto ciò che Frank voleva sentire. Si erano trovati come un naufrago e l’isola, quando tutti e due si erano sentiti perduti in mare.
Frank osservò la sua enorme zucca tutta dipinta di blu. A vederla da dietro sembrava quasi la testa di uno che stesse affacciato dietro al vetro a guardare le maschere dell’orrore girare per le strade.
Ancora il campanello. Un altro rimbalzo fino alla porta d’ingresso. Questa volta era il piccolo Charlie, avvolto in un lenzuolo che lo faceva inciampare a ogni passo.
«Dolcetto o scherzetto?»
Frank ripassò il solito rituale.
«Signore, perché ha dipinto la zucca di blu?» chiese prima di andarsene.
«Perché è un bel colore. Il più bello, non trovi?»
Il bimbo rimase sospeso nei suoi pensieri, tutto concentrato come se stesse risolvendo un problema di meccanica quantistica.
«No! Il più bello è il rosso!» e scappò via come un vero fantasma.
Frank rimase un istante fuori: la notte era fredda e pulita come una lastra di marmo. Una luna paffuta si dondolava in alto, ma la luce che buttava giù schiariva appena le ombre dei mostri che correvano di casa in casa.
Rientrò. Fissò la zucca.
L’aveva dipinta tutta di blu. Era il colore preferito di Dave. Non un blu qualsiasi, ma una tonalità ben precisa: blu di Prussia. Su questo il ragazzo era molto preciso: assicurava che era il colore più buono di tutti, come diceva lui, un colore che ti poteva far volare lontano. E per chi sapeva guardarci dentro, il blu faceva occhieggiare un verde nascosto, come le distese d’erba che avrebbe sorvolato se si fosse fatto inghiottire dal colore.
Ora il mostro verde era tornato in paese e stava sfidando i suoi nemici. Invano, ma non lo sapeva. Un po’ come lui e Dave. Fu un’ombra del passato di Dave a far precipitare la situazione. Frank non avrebbe mai saputo perché quell’ombra era tornata. Una mattina il padre trovò nella cassetta delle lettere una busta. Dentro, delle foto di Dave insieme con un altro ragazzo, nudi su un letto in una camera di un motel. C’era una breve nota allegata: il mittente non era un ricattatore, lo aveva fatto solo per il piacere di rovinare Dave.
Il padre pestò a sangue il figlio, promettendo sfaceli. Ogni giorno gli mangiava la faccia quando lo incrociava per casa, e gli assestava un paio di pugni se gli pareva di non essersi sfogato a sufficienza. Poi, alla rabbia seguì l’indifferenza, e l’ex-colonnello divenne un estraneo gelido e tagliente come un coltello. Dopo qualche giorno, gli comunicò la sua decisione di farlo ricoverare in una clinica per un lungo periodo. Con le sue conoscenze non sarebbe stato difficile far passare il figlio per un povero demente.
Appena poteva, Dave si rifugiava a casa di Frank, e alla fine gli raccontò tutto. Fu costretto a farlo, perché Frank era intenzionato ad andare dal padre e chiarire con le buone o con le cattive tutta la faccenda, cosa che per il ragazzo equivaleva alla morte, più o meno.
L’altro ragazzo delle foto era il suo ex, un teppista che non aveva mai mandato giù l’idea di essere stato lasciato. Forse era stato lui a vendicarsi, dopo così tanto tempo. Le foto le avevano fatte con l’autoscatto. Frank rimase gelato: non sapeva che Dave avesse avuto un’altra storia, soprattutto non se lo immaginava perché una volta glielo aveva chiesto, e lui aveva risposto di no. Perché glielo aveva nascosto?
Con gli occhi gonfiati dalle lacrime, il giovane disse solo che se ne vergognava, che era stato uno sbaglio, e non voleva che lui pensasse male. Poi tacque.
Ma la situazione peggiorò in modo grottesco: a quanto pare, il segreto nascosto nella lettera era divenuto di dominio pubblico. Forse per colpa del suo ex. Gli adulti si limitavano a guardare storto Dave e a fare velenosi commenti dopo il suo passaggio. Ma la crudeltà venne dai più giovani. Forse i genitori avevano detto loro che Dave era un tipo da evitare, un malato o cose del genere. I bambini e i ragazzi della zona cominciarono a prenderlo in giro, ovunque lo incontrassero: per la strada, nei negozi e anche sotto casa. Proseguirono con gli insulti, e poi con mille scherzi idioti. Ogni giorno. Le crisi nervose si decuplicarono, e Dave perse il posto di lavoro.
La notizia dovette passare dai più piccoli ai ragazzi e, in particolare, a una banda di sbandati che pensarono bene di attendere Dave sotto casa, e di pestarlo, così, giusto per sapere come grida un gay quando gli molli un calcio nelle palle. L’ex-colonnello non denunciò l’aggressione, e si limitò a non urlare in faccia al figlio il suo disprezzo. Da allora Frank non vide più il ragazzo che amava, ma solo un fantasma che non riusciva neppure a camminare senza fare gesti strani o sbavare.
Lo stava perdendo. Frank tentò il tutto per tutto e gli propose di andare a vivere da lui, ma Dave, in un momento di lucidità, rifiutò. Temeva che la cosa avesse dei risvolti negativi. Del resto, chi aveva combinato quel casino si era ben guardato dal far cenno alla sua relazione con Frank, e suo padre era capace di tutto, anche di rovinargli la carriera di professore. L’ultima volta che lo vide, Frank cercò di svegliarlo rimproverandolo per la sua debolezza. Semplicemente, aveva perso la pazienza e non ce la faceva a vederlo soffrire così. Dave lo guardò stupito, dietro una maschera irriconoscibile.
«Il problema è solo mio», balbettò. «Io non sono di questo mondo.» Poi lo guardò triste, lo baciò appena, come se fosse infastidito, e scomparì. Fu l’ultima volta che lo vide, e dell’ultimo incontro gli rimase l’immagine che lo ha perseguitato per un anno fino a quella sera: Dave che si allontana caracollando come un ubriaco, con la schiena piegata, mentre i ragazzi, grandi e piccoli, gli urlano dietro e lo spintonano.
Due giorni dopo, il 31 ottobre dell’anno prima, il padre lo trovò impiccato in camera. Frank non riusciva a liberarsi dal pensiero che l’ex-colonnello avesse potuto emettere un sospiro di sollievo alla vista del figlio che pendeva nell’aria.
I minuti passarono, e alla TV il mostro verde giaceva nella piazza della città, morto e disteso in una pozza di liquame scuro che doveva essere il suo sangue. Intorno, i poliziotti - con l’ispettore in testa - esultavano di gioia. Frank finì l’ennesima birra, e solo dopo aver fatto rotolare lontano l’ultima bottiglia fissò il vassoio di dolci che teneva sul tavolino.
Il mostro era stato sconfitto, e il film era finito. Ne stava cominciando un altro, ma non importava. Era sempre la stessa storia. Agguantò il vassoio e guardò i biscotti che lui stesso aveva preparato, quelli con la glassa a forma di teschio.
Fissò la zucca blu. Dave era un sognatore, un tipo estroso, e al blu di Prussia sapeva ricollegare scenari fantastici, sogni e versi di poeti famosi. Frank era molto meno fantasioso, ma sulla tomba del suo amore ringraziò Dio di essere così ottuso e materialista. Perché a un chimico come lui il blu di Prussia non poteva che ricordare una cosa: il cianuro. Sapeva che da quel colorante era possibile isolare l’acido cianidrico, e poi produrne i sali.
Cianuro. Di potassio, per l’esattezza. Ottenerlo non era stato difficile per un chimico come lui. Era riuscito a introdurre il sale finemente pestato nella pasta dei dolci, senza che il composto si degradasse in alcun modo. Quando gli era balenata l’idea per la prima volta, si era ritrovato con un sorriso idiota e gli occhi pieni di lacrime.
Gli parve di sentire un grido strozzato, ma non ne era certo. C’era così tanta confusione là fuori. C’erano i bambini, l’ultimo anello della catena che aveva spezzato la vita di Dave. Avrebbe voluto far fuori il padre, ma subito dopo la tragedia l’uomo aveva traslocato, ed era partito per una destinazione ignota. Avrebbe voluto far fuori quell’ombra che aveva dato inizio a tutto, ma, a dire il vero, aveva solo un nome e nemmeno un volto: quelle fotografie non le aveva mai viste. Rimanevano loro, i bambini. I meno colpevoli. Avrebbe compiuto una vendetta vile, da quattro soldi. Che schifo di mondo.
Ricordò l’ultima immagine di Dave.
Questa volta era abbastanza sicuro di udire le urla di alcuni ragazzi in mezzo alla strada. Sentì dei pianti, bambini che chiamavano i genitori. E, appena percettibili, dei gorgoglii. Frank immaginò la cascata di reazioni che doveva squassare il corpo delle vittime: all’inizio, dallo stomaco risale un sapore amaro e pungente, mentre la gola s’intorpidisce e diventa pesante come un masso. Poi la testa comincia a girare, a far male, e senza accorgersene ci si ritrova a terra, a cercare di prendere aria con respiri spezzati e irregolari. Nel frattempo arrivano le convulsioni, e si è sommersi dall’odore di mandorle amare che risale dai visceri che bruciano. Poi, dopo pochissimo istanti e tanto dolore, il cuore si ferma. Addio, gente.
Sì, qualcosa stava succedendo. Le voci e gli strilli si accavallavano in un’unica onda poderosa, che stava sommergendo tutto il quartiere.
Frank si sistemò sulle gambe il vassoio e cominciò a mangiare i suoi biscotti, senza fretta. Finché poté, non staccò gli occhi dalla sua zucca blu. Voleva chiudere ogni conto, in quella sera e con quel colore davanti.
Halloween in blu.
Tutto era finito e perduto per sempre, ma almeno sarebbe andato là dove Dave era sempre stato: fuori del mondo.

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O BRIGANTE O EMIGRANTE! ...per ora emigrante...

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ZiuPeppi ha scritto:
Mephisto (dionisio) ha scritto:
sono posseduto dalle chiavi :lol: :lol: :lol:


sei chiavato insomma!!!


:asd2: bella chista mo zii! :asd2:

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mercoledì 22 ottobre 2008, ore 19:29
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