gianiro
City Keys Owner!
Data iscrizione: giovedì 21 dicembre 2006, ore 20:21 Messaggi: 4083 Località: MACCHITELLA (GELA)
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Re: assassEni!!
Nel 1962 un giornalista milanese scriveva questo. Non ci credo che ce l'hanno sempre e tutti con noi. Secondo me scriveva quello che vedeva. In grassetto le parti salienti.
Gela – una città già famosa nella Sicilia più povera e abbandonata – è oggi, dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, un paese aperto a tutte le possibilità, dove progresso e arretratezza si fondono ancora e dove certamente è esploso il primo stadio, quello febbrile, della rivoluzione industriale
Cos’era Gela, una volta? Diciamo dieci ani fa, neppure uno spazio di tempo tanto vasto al giorno d’oggi. Era un grosso paese pieno di bambini e di vecchi, di miseria e di uomini che non lavoravano. Un paese, per dirlo con Giovanni Verga, dimenticato da Dio, pieno di famiglie denutrite, con qualche chiesa barocca e i resti di quella che fu, secoli fa, una delle città più ricche e più grandi del Mediterraneo. Un paese, infine, or-mai senza storia, né futuro. Dove si scavava nella sabbia e si trovavano anfore greche, statuette funerarie, resti di mura, suppellettili domestiche, armi di guerrieri. E dove l’unica industria era rappresentata dalla fabbricazione di socpe, e i campi intorno erano coltivati a cotone. C’era il mare, e qualche famiglia vi si recava d’estate a fare i bagni da Catania, da Enna, da Caltanissetta. Allora, fra la povera gente del posto circolava qualche soldo in più, un po’ più di vita. Ma tutto finiva con gli ultimi giorni di settembre. E cos’è Gela, oggi? Ora che è stato scoperto il petrolio, ora che è la capitale del petrolio italiano? Ecco Gela: un lunga striscia di sabbia gialla e bianca che finisce sul mare, le case che si arrampicano verso alcuni alti speroni di terra rossa, e un vento lungo e forte che spazza il cielo dalle nubi. Ha piovuto d poco, le strade sono ancora bagnate e lucide, in giro non c’è quasi nessuno, dalle porte delle case si affacciano degli uomini, dei bambini giocano, e intorno non si sente che il loro chiasso, le loro voci. A vederlo così, mentre appare quasi di colpo, dopo che la strada provinciale si è arrampicata un po’, lasciando dietro di se il mare, sembra un paese addormentato, calmissimo, chiuso nella sua quiete di sempre fatta di abbandono, miseria, tristezza. Gela, infatti, sorge proprio nella Sicilia più povera e abbandonata. Nella Sicilia cassia del latifondo, con la campagna arida e brulla, che rende giusto per non morire di fame, con le zolfatare che si chiudono una dopo l’altra, e i braccianti che popolano la piazza del paese, seduti lungo i muri, sui marciapiedi, attendendo che qualcuno li faccia lavorare qualche giorno di più di quei novanta che fanno, ogni anno alla stessa stagione, per un salario miserabile. Quasi a metà strada fra Agrigento e Ragusa, nella parte più orientale della Sicilia, Gela rappresentava fino a poco tempo fa un caso tipico di costume siciliano e meridionale. E non solo di costume, ma anche di miseria, e di socialità arretrata. E proprio da qui, proprio da questa antichissima cittadina incominciava un territorio che, allargandosi poi alle province di Enna e Caltanissetta, calava su Agrigento spandendosi fino a Sciocca e Selinunte. Un territorio, a dir proprio, fra i più poveri di tutto il Mediterraneo, dove la ma-fia era fortissima, e il delitto e le rapine fiorivano incontrastati. I paesi e le case che sorgevano in questa zona erano soltanto dei ricoveri di miseria. E, purtroppo, in molti casi, lo sono ancora adesso, dopo dieci anni di riforma agraria, e dopo investimenti industriali di grandissima portata. C’è una ragione: la povertà è da sempre la padrona di casa di queste zone, e le riforme per avanzare debbono percorrere una strada che urta contro la mancanza di infrastrutture economiche, tabù sociali fortissimi, analfabetismo, prevenzioni e preconcetti insiti nella popolazione, ostilità di gruppi di pressione alla testa dei quali sono i grandi proprietari terrieri. Così a Gela, se si fa tanto di non vedere le torri petrolifere, le sonde, le costruzioni e le fabbriche del gruppo E.N.I. che sono sorte e stanno sorgendo in riva al mare, nella parte bassa e iniziale del centro abitato; così a Gela, dicevamo, pare che nulla sia mutato, che le condizioni siano quelle di sempre. Questa, almeno, la prima impressione che si ha girando per le sue strade strette e storte e buie, sbirciando dentro gli usci aperti che danno per lo più in una stanza bassa e cupa, abitata da uomini e bestie: galline, capre, conigli, talvolta ci si vedono persino muli. Niente, veramente, pare cambiato. Come cinque, dieci anni fa, come sempre. La miseria è così uguale, così tremendamente monotona nel sud. E i suoi tratti, i lineamenti del suo volto sono sempre quelli, sempre identici. A Gela, come a Palma di Montechiaro, come nella “Kalsa” di Palermo, come nei bassi della “mano nera” a Torre Annunziata, come nelle stridette di Ragusa vecchia. E anche la gente pare quella, tutti i bambini sono uguali, stracciati, mal vestiti, mal nutriti: sempre in mezzo alla strada, coi loro gesti oramai da persone adulte, abituati a vedere i loro genitori trascorrere la giornata nell’attesa che arrivi qualcosa, qualunque cosa che serva a dare un nuovo indirizzo alla loro vita. Ma muoviamoci ancora per la città, vediamola meglio, osserviamola più attentamente. Basterà frequentare la sua via principale all’ora del tramonto, la si coglierà in uno dei suoi momenti più caratteristici. Lungo il “corso”, una fiumana di gente cammina ininterrottamente, bloccando il traffico dei veicoli. Questa passeggiata serale costituisce il fatto socialmente più importante della vita della comunità.
E la stessa cosa accadeva venti o cinquant’anni fa: il costume non è cambiato. D’accordo, forse allora si vedevano meno donne in giro, c’era meno illuminazione e meno gente vestita in modo “borghese”, ma la realtà di fondo era sempre quella, il modulo sociale era identico. E del resto ancora oggi, nel 1962, nell’era del volo spaziale, molte donne di Gela non escono di casa che alla domenica, per fare la loro passeggiata al braccio del marito. Talchè non è infrequente vedere l‘uomo che va a fare la spesa nei giorni feriali e la donna potrà sedersi a prendere il fresco sulla soglia di casa, ma farà attenzione a voltare le spalle alla strada, per non far sorgere dicerie e “voci” alcune sulla sua onorabilità. Ma poi, a forza di guardare, di osservare, di confrontare con quanto si era visto prima, si nota che pure qualcosa è cambiato. Lentamente, d’accordo, con estrema cautela, ma qualcosa di nuovo c’è. Intanto: sono aumentati i bar, le antenne della televisione si sono più che quadruplicate, le vetrine dei negozi espongono più merce. E per le strade, anche questo era sfuggito al primo colpo d’occhio, si vedono numerosi moto-scooters, acconciati nei modi più incredibili: con nastri e fiocchi e specchietti e selle in falso leopardo o in falsa zebra. E nei bar ci sono i juke-box, e nei chioschi si vendono più giornali e più settimanali, e i tabacchini hanno visto aumentare le richieste di sigarette che non fossero le solite alfa o nazionali semplici. E se i cinema sono sempre due, fanno però spettacolo tutte le sere, e non a sere alternate come accadeva qualche anno fa. Tutto ciò, indubbiamente, significa qualcosa. Fra l’altro, sta ad indicare che i consumi sono aumentati, che a Gela si vende e si compra di più, che c’è maggiore circolazione di denaro, che qui, insomma, la macchina del progresso ha incominciato a mettersi in moto. E quando ciò succede in un’area depressa, un altro fenomeno viene a galla in modo netto: le contraddizioni non vengono più oscurate e celate, ma stridono. Così, volendo, di Gela 1962 si possono dare due immagini: una ottimistica e una pessimistica. Pessimistica, se ci si limita a constatare lo stato di estrema indigenza nella quale vive tuttora la maggior parte della popolazione, e la mancanza di fognature, di servizi igienici, di lavoro, la povertà della campagna, la carenza di aule scolastiche e di insegnanti, e la gran quantità di cose che resta ancora da fare. Ottimistica, se si nota l’aumento dei consumi, se si guarda al futuro, agli sviluppi che l’impresa dell’E.N.I. ha provocato e provocherà, alla costruzione del nuovo ospedale, alle case e ai quartieri che sorgono alla periferia del vecchio centro urbano. E, infine, alla speranza. “Ora – ci ha detto un giovane appena diplomato di qui – possiamo sperare anche noi. Sappiamo che sperare non è una cosa inutile. Che qualcosa si è rotto del vecchio immobilismo”. E non si trascuri questo aspetto psicologico, che è di fondamentale importanza. Eppure, sia l’una sia l’altra interpretazione sono sbagliate e, staremmo per dire, soltanto esterne, troppo facili. La rappresentazione che esse danno di questa realtà è affatto parziale. Piuttosto, ci sarà da osservare che Gela è un paese aperto a tutte le possibilità, do-ve progresso e arretratezza si confondono ancora, e dove certamente è esploso il primo stadio – quello febbrile, tanto per intenderci – della rivoluzione industriale e dove questa rivoluzione ha causato alcuni dei suoi effetti, ma sviluppandoli e accrescendoli in mezzo al caos e al disordine e nella mancanza di una legislazione adeguata.
Certo, se ci limitassimo ad osservare in sé e per sé, isolatamente, l’opera dell’EN.I., il bilancio non potrebbe non essere largamente positivo, entusiastico quasi, perché quello che è stato fatto, che si fa e si farà è veramente imponente. Ma bisogna anche guardare più in profondità e compiere una lettura di questa difficile realtà in modo più complesso, più impietoso – se vogliamo – ma anche più funzionale. E intanto veniamo a una constatazione palmare: la popolazione di Gela risultava al censimento del 4 novembre 1951 di 43.678 abitanti. Al 31 giugno del 1959 questa cifra era salita a circa 51.190 abitanti. Un tale forte incremento è, senza dubbio, dovuto alle nuove fonti di lavoro che, per la scoperta e lo sfruttamento del petrolio, si sono avute. E a quel tale effetto psicologico di cui si discorreva più sopra, che è legato questa scoperta. Del pari, è diminuito il numero dei disoccupati, che rimane però sempre fortissimo e che, e ciò è importante, conosce forti oscillazioni stagionali. Durante l’invero i disoccupati raggiungono la quota di 4000-4500, ma nell’estate si riducono della metà. Ancora: la sottoccupazione è rilevante e, di volta in volta, palese oppure nascosta. Nella categoria dei sottoccupati dovremo iscrivere i coltivatori diretti e i mezzadri impropri con terra insufficiente; e quindi tutta una schiera di mediatori, commercianti non meglio identificati, garzoni di barbiere, di bar, e poi le donne, la gran massa delle donne che, per ubbidire ai vieti tabù di costume, non possono svolgere alcun lavoro che pure oggi non disdegnerebbero. Le riserve di lavoro sono qui, dunque, quantitativamente enormi, ma qualitativamente assai basse per mancanza di qualificazione professionale e di offerte di lavoro remunerative. Dal che derivano redditi di lavoro parecchio scarsi. Ma continuiamo con i dati e tocchiamo un’altra piaga di questo Sud malato e cronico: l’analfabetismo. Sempre al penultimo censimento, 36.130 residenti in età superiore ai sei anni, ben 11.623 si dichiararono incapaci di leggere o di scrivere, o di entrambe le cose. La percentuale degli analfabeti risultava, quindi, del 32 per cento, e come tale più elevata della media siciliana, che era del 24,5 per cento. Da allora a oggi si è avuto qualche miglioramento, ma in dose assai minima. Impressionante è poi la percentuale di analfabeti di ritorno, che è del 62,60 per cento, contro la media siciliana che è del 47,92 per cento. Quanto a coloro che a Gela hanno raggiunto un titolo di studio superiore a quello elementare, c’è da dire che sono soltanto il 5,06 per cento della popolazione superiore ai sei anni. Indubbiamente, quello che abbiamo descritto è un volto pesante della città, che fa il paio con quello rappresentato dall’aspetto esterno dell’85 per cento delle abitazioni: malsane, umide, buie, senza servizi igienici, senza riscaldamento. Sono case di due piani al massimo, e per questo vengono dette “terragni”, cioè attaccate al suolo, alla terra, basse. Il pian terreno viene affittato i meno abbienti, i più ricchi vanno ad abitare sopra. E siccome nella quasi totalità dei casi l’abitazione è rappresentata a un unico vano, è evidente che appena il tempo lo consenta, la vita si sposti all’aperto, fuori, per la strada. E così gli uomini vestiti di scuro e silenziosi, i bambini che giocano, i giovani che bighellonano per vie e viuzze, tutto diventa una parte integrante del panorama. E la vita stessa della città, il suo costume sociale, si confonde coi colori del cielo, con l’andamento delle strade, con gli aspetti più vari e difformi di una realtà che trova la sua dimensione in una situazione economica che si ripete orai da troppo tempo.
Giuseppe Tarozzi
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