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racconti brividosi... 
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Messaggio Re: racconti brividosi...
è brutta :( :( :(

irè, la qualità ! la qualità!

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martedì 19 ottobre 2010, ore 20:31
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Messaggio Re: racconti brividosi...
gianiro ha scritto:
Ma li scirvi tu, Irè?

[-X [-X [-X

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mercoledì 20 ottobre 2010, ore 22:40
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Messaggio Re: racconti brividosi...
gianiro ha scritto:
ryoga ha scritto:
gianiro ha scritto:
Ma li scirvi tu, Irè?

[-X [-X [-X


mi parivuni fatti troppu bene


;)
aaaaaafangùùùlu :evil: :evil: :P :P

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mercoledì 20 ottobre 2010, ore 22:44
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Messaggio Re: racconti brividosi...
Il volto del terrore

Mi chiamo Daniel De Regibus e faccio il notaio. È mezzanotte quando arrivo al maniero della nobile famiglia Regula. Piove a dirotto e soffia un vento freddo e violento. Sopra di me si stende un cielo nero, senza luna e senza stelle, screziato d’argento, che si muove in continuazione; più che un cielo sembra un mare rovesciato, percorso da onde minacciose dalla cresta incanutita, che paiono ingoiare la terra da un momento all’altro, per poi tornare ad essere cielo, un cielo solcato da fulmini ramificati, che sembrano artigli di creature mostruose pronti ad afferrarla e a divorarla. Parcheggio la mia auto a poca distanza dal maniero e, con una corsa veloce, mi avvicino al portone della dimora dei Regula. Rabbrividisco quando mi ci trovo davanti: è un incrocio tra il castello di Dracula, la casa degli Addams e quella di Norman Bates. Sono qui per un appuntamento di lavoro. È strano, preoccupante, che due nobili ti diano appuntamento nella loro casa a mezzanotte, ma il lavoro è il lavoro. Dopo qualche secondo mi viene ad aprire un uomo quanto mai singolare, che sembra essere nato proprio per abitare in una magione così tetra, così tenebrosa; un uomo che pare uscito da un racconto di Edgar Allan Poe o da un film horror in bianco e nero degli anni Trenta. È un maggiordomo, a giudicare dall’abbigliamento: alto, magro, vestito interamente di nero; il volto è pallidissimo e contornato da folti capelli bianchi che cadono scompostamente sulle spalle; gli occhi sono grandi e luminosi, il naso aquilino, la bocca delimitata da labbra rosse sotto cui si intravedono denti grandi e bianchissimi; le mani, ossute, molto ossute, reggono un doppiere, le cui candele ardono di una luce debole. Questa specie di mostro mi dà il benvenuto con tono gentile, ma beffardo, strisciando le parole. E immediatamente dopo, senza aggiungere altro, mi fa cenno di seguirlo. Insieme percorriamo un lungo corridoio, appena rischiarato dalla tenue luce del doppiere, che illumina, per pochi attimi , arredi antichi e vecchi dipinti, per poi entrare in una sala che ha tutta l’aria di essere una biblioteca. Sono stupito e soprattutto turbato - lo ammetto senza vergognarmi - per il luogo dove mi trovo, per la sinistra figura che mi ha aperto la porta, per il modo stesso con cui sono stato ricevuto. Ma forse o sicuramente questa notte non devo stupirmi di nulla… Forse devo solo aver paura… Forse devo solo morire.
“Sono il notaio De Regibus - dico ad un certo punto per farmi coraggio e per sapere qualcosa in più del posto dove sono finito dal mio lugubre accompagnatore - ed ho un appuntamento con il barone e la baronessa Regula per una questione molto importante… Una questione ereditaria”.
“Mi chiamo Erik e sono il capo della servitù di questa casa” proferisce con tono teatrale il maggiordomo mentre accende le candele di un grosso lampadario fatto scendere dal soffitto con una logora corda. ”Il signor barone - continua sempre strisciando le parole - mi ha avvertito del suo arrivo e sarà qui, da lei, tra poco insieme alla signora baronessa”.
Il maggiordomo mi indica, quindi, una poltrona di velluto rosso su cui accomodarmi. E senza dire altro esce dalla biblioteca chiudendo piano la pesante porta che cigola sinistramente e minacciosamente. Sono proprio finito nella classica casa del terrore: è notte, fuori c’è un temporale, sono stato ricevuto da un essere spettrale, manca l’elettricità ed ho appuntamento con due nobili di cui non so nulla. Mi sento un novello Jonathan Harker.
La biblioteca dove sto aspettando i padroni di casa è veramente grande. Le pareti, con la sola eccezione delle finestre che assomigliano alle vetrate delle chiese, sono interamente tappezzate da libri. Sono migliaia e migliaia. Si tratta, perlopiù, di grossi volumi elegantemente rilegati in pelle. Sono un lettore appassionato e non posso fare a meno di avvicinarmi ad essi, con discrezione, e pronto a fare un balzo indietro non appena sento che qualcuno si sta avvicinando. Inclino la testa per leggere alcuni titoli incisi sulle coste e sbalordisco, ma forse non più di tanto: sono libri che parlano di magia nera, di streghe, di vampiri, di licantropi e di spettri. In quel momento il mio sguardo cade fuori da una delle finestre e, nonostante la pioggia battente, mi sembra di scorgere delle figure evanescenti che si stanno avvicinando minacciose al maniero.
Nella mia mente si affollano terribili pensieri quando, all’improvviso, la pesante porta della biblioteca schiude i suoi possenti battenti. E compare lui, Erik, il maggiordomo, che mi annuncia i suoi padroni che, pochi attimi dopo, fanno il loro ingresso nella biblioteca con la solennità che si usava nei tempi passati.
E il terrore e l’orrore più grandi che si possano immaginare mi invadono del tutto. Sento la mente annebbiarsi, il cuore spezzarsi, il corpo decomporsi. Sono tutti e tre uguali! Terribilmente e perfettamente uguali! Il barone è identico al maggiordomo ed anche la baronessa, a parte l’abbigliamento e le fattezze femminili del volto e del fisico, lo è. Ho un rigurgito di forze ed una vampata di coraggio. Con un gesto che sa di disperazione afferro l’alabarda di una vecchia armatura posta dietro di me e mi metto con le spalle al muro come per cercare in esso un sostegno, una difesa e grido:
“Tu!?… Lei!?… Voi!?… Chi siete?… Che cosa volete da me?…”.
Loro mi scrutano con attenzione, abbozzando sulle labbra un sogghigno diabolico; c’è un silenzio di tomba, rotto soltanto dalla pioggia scrosciante e, di tanto in tanto, dal rombare violento del tuono. Poi, all’improvviso, unendo all’unisono le loro voci, che hanno un suono infernale, mi dicono:
“Noi siamo ciò che tu stai provando in questo preciso momento: il terrore. Esso assume tante forme, si manifesta in infiniti modi, ma il suo volto è sempre lo stesso: il nostro volto”.
E io mi sento venir meno… E cado sul pavimento, freddo come una lapide, della biblioteca… E muoio… Muoio… Muoio…

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martedì 26 ottobre 2010, ore 19:01
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Messaggio Re: racconti brividosi...
O M G !!! ç_ç

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è iniziato tutto nel silenzio e finirà nella stessa maniera...in silenzio...anche se le grida,le urla saranno solo dentro...


martedì 26 ottobre 2010, ore 20:25
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Messaggio Re: racconti brividosi...
troppu longu irè vincisti, mi scantaiu sulu sulu a illu a leggiri! ç_ç ç_ç ç_ç

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Vo fari moriri a un cuinnutu?? Statti mutu! :-# Immagine Immagine
Questa è ImmagineImmagine 8)
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mercoledì 27 ottobre 2010, ore 0:44
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Messaggio Re: racconti brividosi...
il ritratto ovale

ll castello nel quale il mio domestico aveva osato entrare con la forza, per non permettere che io, nella mia condizione di ferito grave, trascorressi una notte all’aperto, era uno di quegli edifici commisti di malinconia e splendore che così a lungo sono stati una presenza accigliata fra gli Appennini, non meno di fatto che nella fantasia della signora Radcliffe. Era stato temporaneamente e molto di recente abbandonato, a quanto si poteva vedere. Ci stabilimmo in una delle stanze più piccole e arredate meno sontuosamente. Si trovava in una remota torretta della costruzione. I suoi ornamenti erano ricchi, ma rovinati e antiquati. I muri erano rivestiti d’arazzi e decorati con trofei araldici, vari e multiformi, insieme con un numero insolitamente grande di quadri moderni molto vivaci in cornici riccamente arabescate d’oro. Per questi dipinti, che pendevano non solo dalle superfici principali dei muri ma in moltissimi recessi che l’architettura bizzarra del castello aveva inventato – per questi quadri, il mio delirio incipiente, forse, mi aveva fatto provare profondo interesse; cosicché comandai a Pedro di chiudere le pesanti imposte della stanza – poiché era già notte, –di accendere i bracci di un alto candelabro che stava al capezzale del mio letto, e aprire completamente le cortine di velluto nero ornate di frange che nascondevano il letto stesso. Desideravo tutto questo per potermi abbandonare, se non al sonno, almeno alternativamente alla contemplazione di questi quadri, e alla lettura attenta di un volumetto che avevo trovato sul guanciale, e che si proponeva di criticarli e descriverli.

A lungo lessi, – a lungo, e devotamente rimirai, devotamente. Le ore volarono rapide e splendide e venne la mezzanotte oscura. La posizione del candelabro non mi piaceva, e allungando la mano con difficoltà, piuttosto che disturbare il mio domestico addormentato, lo collocai in modo che proiettasse meglio i suoi raggi sul libro.

Ma l’azione produsse un effetto del tutto imprevisto. Le luci delle numerose candele (ce ne erano molte) ora andavano a cadere in una nicchia della stanza che fino a quel momento era stata messa in ombra profonda da una colonnina del letto. Vidi così in piena luce un quadro passato del tutto inosservato prima.
Era il ritratto di una giovinetta quasi sul punto di divenire donna. Gettai uno sguardo frettoloso al quadro, e poi chiusi gli occhi. Perché lo feci non fu all’inizio chiaro neanche a me. Ma mentre le mie palpebre rimanevano chiuse, esaminai rapidamente nella mente le ragioni per cui le tenevo così chiuse. Era stato un atto impulsivo per guadagnare tempo e pensare – per esser certo che la vista non mi avesse ingannato – per calmare e dominare la mia fantasia e indurla a una contemplazione più calma e sicura. Dopo pochissimi momenti tornai a guardare di nuovo fissamente il quadro.

Che ora vedessi giusto non potevo né volevo dubitare; poiché il primo barlume delle candele su quella tela era sembrato dissipare lo stupore di sogno che aveva sorpreso i miei sensi, per riportarmi all’improvviso alla vita vigile.
Il ritratto, l’ho già detto, era quello di una ragazza. Raffigurava solo testa e spalle, in quello che è tecnicamente chiamato uno stili vignette; molto nello stile delle teste preferite di Sully. Le braccia, il petto, e persino le estremità dei capelli radiosi si fondevano impercettibilmente nella vaga ma profonda ombra che

formava lo sfondo dell’insieme. La cornice era ovale, riccamente dorata e filigranata alla moresca. Come oggetto d’arte, niente poteva essere più mirabile del dipinto stesso. Ma non poteva essere stata né l’esecuzione del lavoro, né la bellezza immortale del volto, che mi avevano così repentinamente e violentemente commosso. Meno di tutto, poteva essere stato che la mia fantasia, scossa dal suo dormiveglia, avesse preso la testa per quella di una persona viva, capii subito che le peculiarità del disegno, della «vignettatura», e della cornice, avrebbero immediatamente dissipato una simile illusione – anzi, mi avrebbero addirittura impedito di soggiacervi anche un solo istante. Riflettendo con impegno su questi aspetti, rimasi, forse un’ora, mezzo seduto, mezzo disteso, con gli occhi fissi sul ritratto. Alla fine, soddisfatto del vero segreto del suo effetto, mi lasciai ricadere sul letto. Avevo scoperto che il fascino del quadro consisteva in un’assoluta realistica vitalità di espressione, che, all’inizio mia aveva stupito, infine confuso, conquistato, spaventato. Con profondo e rispettoso timore ricollocai il candelabro nella posizione precedente. Allontanata così dalla vista la causa della mia profonda agitazione, cercai ansiosamente il libro che parlava dei dipinti e della loro storia. Giunto al numero che indicava il ritratto ovale, vi lessi le parolevaghe e strane che seguono:
«Era una fanciulla di rarissima bellezza, e non meno soave che piena di gioiosità. E funesta fu l’ora in cui vide, amò, e sposò il pittore. Lui appassionato, sollecito studioso, austero, e giò sposato con la sua Arte, lei una fanciulla di rarissima bellezza, e non meno soave che piena di gioiosità; tutta luce e sorrisi, e vivace
come una cerbiatta; amante e appassionata di tutte le cose; odiava solo l’Arte che era la sua rivale; temeva solo la tavolozza e i pennelli e gli altri strumenti spiacevoli che la privavano della vista del suo amato. Fu dunque una cosa terribile per questa donna udire il pittore parlare del suo desiderio di ritrarre anche la sua giovane sposa. Ma era umile e obbediente, e posò per molte settimane docilmente nell’oscura e alta camera – nella torretta dove la luce scendeva sulla bianca tela solo dall’alto. Ma egli, il pittore, si gloriava solo della sua opera che procedeva di ora in ora, di giorno in giorno. Era un uomo appassionato, ombroso, e lunatico, che sognava a occhi aperti; cosicché non voleva accorgersi che la luce che cadeva così spettralmente in quella solitaria torretta faceva deperire la salute e la vivacità della sua sposa, che sfioriva
visibilmente per tutti tranne che per lui. Tuttavia ella sorrideva ancora e sempre, senza lamentarsi, perché vedeva che il pittore (che aveva grande notorietà) traeva un piacere intenso e ardente dal suo lavoro, e lavorava notte e giorno per ritrarre lei che tanto lo amava, ma che diveniva di giorno in giorno più spenta e debole. E in verità che contemplava il ritratto parlava della sua somiglianza in parole sommesse, come di una grandissima meraviglia, una testimonianza non meno della capacità del pittore che del suo profondo amore per colei che veniva ritraendo in modo così incomparabile. Ma alla fine, mentre l’opera si avvicinava
alla conclusione, nessuno fu più ammesso nella torretta; divenuto folle nell’ardore della sua opera, il pittore distoglieva raramente gli occhi dalla tela, anche solo per osservare il volto della sposa. E non voleva accorgersi che i colori che stendeva sulla tela erano sottratti alle gote di lei che gli sedeva vicino. E quando molte settimane furono passate, e solo poco rimaneva da fare, una pennellata sulla bocca e una sfumatura sull’occhio, lo spirito della donna guizzò di nuovo come la fiamma nel bocciolo della lampada. E allora fu data la pennellata, e la sfumatura fu posta; e, per un attimo, il pittore rimase estasiato davanti all’opera che aveva compiuto; ma subito dopo, perso ancora nella contemplazione, divenne tremante e molto pallido, e atterrito, gridando con una voce forte, “Questa è davvero la Vita stessa!” si voltò improvvisamente a osservare la sua amata: Era morta!».

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domenica 9 ottobre 2011, ore 13:53
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Messaggio Re: racconti brividosi...
La donna più vecchia del Mondo

Carlo uscì dall’ufficio verso le 20.30. Sua moglie lo aveva avvertito che sarebbe rientrata tardi per una cena di lavoro, così si fermò a prendere una pizza dai cinesi sotto casa. Appena aprì la porta della sua abitazione sentì un odore strano, non fortissimo, ma fastidioso: odore di un qualcosa andato a male. Accese le luci, appoggiò la pizza sul tavolo in cucina e controllò nel frigorifero, ma a parte un cartoncino di latte fresco scaduto il giorno precedente che ancora non puzzava non trovò nulla che emanasse quell’odore. Aprì le finestre per fare entrare dell’aria fresca e si diresse in camera per cambiarsi: non sopportava più la cravatta e la camicia che indossava dal mattino e non vedeva l’ora di infilarsi una t-shirt e i calzoni della tuta.

Si stava sfilando la cravatta quando l’occhio gli cadde sul copriletto dalla parte di sua moglie: era stropicciato, come se qualcuno ci si fosse sdraiato sopra. Avevano rifatto il letto quella mattina lui e Giada ed erano poi usciti assieme. Sua moglie era fissata con il tirare le lenzuola per bene, senza lasciare neanche una piega. Forse era passata da casa prima di andare fuori a cena e si era sdraiata un attimo per riposarsi.
Mentre stava osservando il letto squillò il cellulare. Era Giada.

- Pronto?

- Ciao amore! Sei a casa?

- Ciao piccola. Si, sono appena arrivato. Stavo per mangiarmi una pizza. Tu?

- Siamo appena arrivati al ristorante… non ne ho voglia per niente. Spero che non vada per le lunghe… mi aspetti?

- …dipende a che ora rientri. Sono a pezzi e non so se riesco a non addormentarmi.

- Bè… se stai dormendo magari provo a svegliarti…

In quel momento suonò il telefono di casa.

- Giada, aspetta un attimo: sta suonando l’altro telefono.

Carlo cercò il cordless che non era mai al suo posto, seguì il suono e lo trovò in bagno.

- Pronto?

La voce che sentì dall’altra parte gli raggelò per un attimo il sangue. Era simile a quella di sua moglie ma tremolante e leggermente più acuta. Spesso Giada si divertiva a fare la parte della vecchietta rimbambita. Anzi, “rimbambolita”, come diceva lei. E la voce al telefono sembrava proprio quella. Ma quello che lo colpì furono le parole.

- Ciaaoo amoooore! Sei a caaasa?

Carlo guardò il cellulare che teneva nell’altra mano. Il display segnava la chiamata in corso “GIADA CELL – 1 min. e 6 secondi”. E sentiva la voce di sua moglie che stava urlando:

- Un attimo! Arrivo subito! CARLO!! CARLO!!! CI SEI?? DEVO ANDARE!

Carlo rispose velocemente a sua moglie dal cellulare.

- Un attimo Giada. Aspetta!

Riprese il telefono di casa.

- Pronto, ma chi parla? Credo che abbia sbagliato num…

Quella voce tremolante lo interruppe.

- …aspettaaamiii. Sto arrivaaandooo…

Poi il rumore della chiamata terminata. Riprese il cellulare:

- Giada, sei ancora lì?

- Si, ma ancora per poco. Mi stanno chiamando. Chi era?

- Ma che ne so. Sembrava la voce di una vecchia. Tipo la tua quando fai la voce da vecchietta rimbambita…

- Come queeesta vooce? Guaarda che noon soono riimbambolitaa…

A Carlo venne un brivido lungo la schiena.

- Si… cavoli, una voce molto simile…

- Caaarlooo…

- Smettila Giada

- Va bene… devo andare, mi stanno chiamando

- Giada?

- Si?

- Ma sei ripassata da casa oggi?

- No, perché?

- Mah… niente. Pensavo. Buona serata

- Buona pizza! Ciao.

- Ciao. A dopo, se riesci a svegliarmi…

- Ci riuscirò, so come farlo…

Finita la telefonata tirò il copriletto per sistemare le pieghe e sentì ancora quell’odore strano. Avvicinò il naso al letto e annusò: gli venne un conato di vomito. Era il copriletto che puzzava di marcio.

- Ma cosa cavolo ci è caduto sopra? – pensò. Tolse il copriletto e lo infilò nella lavatrice. Anche le lenzuola avevano uno strano odore, così decise di cambiare anche quelle. Poi finalmente mangiò la sua pizza, accompagnata da un paio di birre, davanti alla Televisione.

Stava guardando su una Tv privata un programma sportivo di quelli in cui riescono a parlare di calcio 24 ore al giorno anche quando non ci sono partite, quando di colpo la televisione si spense. Spesso capitava che il telecomando si infilasse fra i cuscini del divano e muovendosi qualche tasto veniva schiacciato inavvertitamente. Ma il telecomando era proprio davanti a lui, sul pouf dell’Ikea che usavano come poggiapiedi. Allungò la mano per prenderlo e in quel momento lo stereo, che era sempre sintonizzato su un canale di musica Rock, si accese al massimo volume. Carlo fece un balzo dallo spavento e rovesciò un po’ di birra sul divano.

- Ma che ca**o…

Dalle casse del suo impianto Dolby Surround uscivano le note di “The Call Of Ktulu” un brano strumentale dei Metallica ispirato da un racconto di Lovecraft. Il suono dei bassi sparati a quel volume fece vibrare per un attimo le finestre della sala. Carlo si precipitò a spegnere lo stereo. Non passarono neanche due minuti che suonarono alla porta. Prima di aprire guardò dallo spioncino. Era il suo vicino e capì subito che era venuto per lamentarsi del rumore. Aprì la porta, sforzandosi di creare un sorriso sul suo volto:

- Mi spiace Sig. Pezzetti. Mi si è acceso per sbaglio lo stereo al massimo volume…

- Per sbaglio? Come fa ad accenderlo per sbaglio!?? Insomma, lo sa che abbiamo una certa età e andiamo a dormire presto! Si metta le cuffie, no?

- Le ho detto che mi spiace. Vada a dormire tranquillo.

Carlo chiuse la porta e cancellò il sorriso dalla sua bocca.

- Che rompicoglioni…

Verso le 22.00 era già nel letto e si addormentò subito. Fece un sogno in cui rivisse quello che era successo poco prima: la Tv che si spegne, la radio che si accende di colpo, il campanello della porta che suona. Ma nel sogno quando guarda dallo spioncino non vede nulla. La luce sul pianerottolo è spenta, ma percepisce nettamente una voce: è quella tremolante della telefonata:

- Sooonooo arrivaataaa! Sonoo qui per teee, CAARLOOOOOOO! CAAARLOOOO! – Nel sogno Carlo inizia ad urlare.

Si risvegliò completamente sudato nel buio totale. L’unica luce nella stanza era il led della sveglia sul suo comodino che segnava le 00.30. Aveva il respiro affannato e nella sua testa continuava a sentire quella voce che ripeteva il suo nome. Era sdraiato su di un lato, rivolto verso il muro, pietrificato dal terrore per il sogno appena fatto. Fortunatamente sentì dietro di lui la presenza di sua moglie: il suo braccio stava cingendo il suo petto. Non l’aveva sentita rientrare. Udiva il suo sbuffo, a metà tra il russare e il respiro profondo. Prese la sua mano tra le sue e la sentì gelida: Giada aveva sempre le mani e i piedi freddi.

Stava per riaddormentarsi, quando sentì un rumore provenire dal corridoio. La loro camera da letto era di fianco al bagno. Sulla parete che li separava, in alto, c’erano due finestre lunghe e strette: siccome il bagno originariamente era cieco, le avevano fatte mettere in modo che prendesse luce dalla camera da letto. E da quelle finestre Carlo vide la luce accendersi.

Era ancora in quello stato di semi-incoscienza in cui ci si ritrova dopo un risveglio brusco a causa di un brutto sogno.

- E se sto ancora sognando? – pensò Carlo – Magari sto sognando di essermi risvegliato, ma sono ancora nel mezzo dell’incubo di prima… e adesso sentirò dal bagno quella ca**o di voce che mi chiama… -. Si accorse che stava tremando.

- Però se non sto sognando e sono sveglio allora vuol dire che c’è qualcuno in casa… ho lasciato la finestra della sala aperta… potrebbero essere entrati dei ladri da lì…

Il torpore stava svanendo e capì di essere completamente sveglio.

- Giada…, Giada, svegliati… c’è qualcuno in casa…- sussurrò a sua moglie. Ma continuò a sentire il suo respiro profondo dietro di lui, la sua mano fredda ancora appoggiata al suo ventre. Doveva fare qualcosa: non riusciva più a starsene immobile nel letto. Doveva reagire. In certe situazioni non si riesce a ragionare. Si agisce di impulso.

- Forse se mi sentono si spaventano e scappano – pensò. Così prese un po’ di coraggio e urlò:

- Chi c’è!!?? Chi c’è nel bagno!!???

Quando giunse la risposta Carlo capì la differenza tra paura e terrore. Il vedere la luce del bagno accendersi provocò in lui paura. Paura che ci fossero dei ladri in casa, nella stanza a fianco. Il sentire la risposta che arrivò fece scoppiare in lui terrore allo stato puro. Terrore di qualcosa che non solo non sai cosa o chi sia, ma che è sdraiata al tuo fianco e a cui stai tenendo la mano fra le tue.

La risposta dalla stanza affianco arrivò dalla voce di sua moglie:

- Amore, sono io… scusami… ti ho svegliato?

Era la voce di Giada, senza alcun dubbio. Lei era nel bagno. E allora chi c’era alle sue spalle?

La luce passava dalle finestre e illuminava leggermente la camera. Carlo sentiva ancora dietro di lui il respiro profondo, e non riusciva a lasciare la mano gelida che stava stringendo. Iniziò a voltarsi lentamente e mentre si girava risentì nella sua mente la voce che aveva sentito al telefono:

- …aspettaaamiii. Sto arrivaaandooo…

E quella dell’incubo avuto poco prima:

- Sooonooo arrivaataaa! Sonoo qui per teee, CAARLOOOOOOO! CAAARLOOOO!

All’improvviso capì. Quella voce non era come quella di sua moglie che imita una vecchia.

Era come la voce di una vecchia che imita quella di sua moglie.

Il tempo si era quasi come fermato. Gli sembrò di metterci un eternità a girarsi. Sentì ancora l’odore di marcio che aveva percepito rientrando in casa. Il respiro profondo al suo fianco si fermò e anche il suo cuore smise di battere per qualche secondo quando sentì di fianco a lui quella voce che sussurrava il suo nome.

- CAARLOOOOOOO… CAAARLOOOO…! Sonoo qui per teee!

Ancora prima di vederla in faccia capì chi c’era nel suo letto: la donna più vecchia del mondo.

E’ stata chiamata in diversi modi dalle varie culture del nostro mondo: Yama, Enma, Thanatos, Giltinè, Memitim, Azrael… ma per noi è sempre stata la donna il cui compito è di portare gli esseri vivi al regno dei morti.



Giada si stava lavando i denti quando sentì un urlo agghiacciante provenire dalla camera da letto. Le venne la pelle d’oca. Non aveva mai sentito Carlo urlare in quel modo. Si precipitò subito in camera e quando entrò trovò suo marito immobile, girato verso il centro del letto, con un’espressione di terrore sul viso che non dimenticò mai. Gli occhi erano sbarrati, fissi verso il suo cuscino. Una mano era allungata sul letto, come se stesse cercando di allontanare qualcosa o qualcuno. Iniziò a piangere. Chiamò un ambulanza, ma capì subito che ormai non c’era più nulla da fare. Infarto dissero i medici.

Giada non riuscì mai a spiegarsi due cose: il letto dalla sua parte era tutto stropicciato, come se qualcuno ci avesse dormito. E Carlo aveva i capelli completamente bianchi.

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martedì 11 ottobre 2011, ore 17:59
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Messaggio Re: racconti brividosi...
per me è brividoso:

La crisi degli asini

Un uomo in giacca e cravatta è apparso un giorno in un villaggio.
In piedi su una cassetta della frutta, gridò a chi passava che avrebbe comprato a € 100 in contanti ogni asino che gli sarebbe stato offerto.
I contadini erano effettivamente un po' sorpresi, ma il prezzo era alto e quelli che accettarono tornarono a casa con il portafoglio gonfio, felici come una pasqua.

L'uomo venne anche il giorno dopo e questa volta offrì 150 € per asino, e di nuovo tante persone gli vendettero i propri animali.

Il giorno seguente, offrì 300 € a quelli che non avevano ancora venduto gli ultimi asini del villaggio.
Vedendo che non ne rimaneva nessuno, annunciò che avrebbe comprato asini a 500 € la settimana successiva e se ne andò dal villaggio.

Il giorno dopo, affidò al suo socio la mandria che aveva appena acquistato e lo inviò nello stesso villaggio con l'ordine di vendere le bestie 400 € l'una.
Vedendo la possibilità di realizzare un utile di 100 €, la settimana successiva tutti gli abitanti del villaggio acquistarono asini a quattro volte il prezzo al quale li avevano venduti e, per far ciò, si indebitarono con la banca.
Come era prevedibile, i due uomini d'affari andarono in vacanza in un paradiso fiscale con i soldi guadagnati e tutti gli abitanti del villaggio rimasero con asini senza valore e debiti fino a sopra i capelli.
Gli sfortunati provarono invano a vendere gli asini per rimborsare i prestiti. Il corso dell'asino era crollato.

Gli animali furono sequestrati ed affittati ai loro precedenti proprietari dal banchiere. Nonostante ciò il banchiere andò a piangere dal sindaco, spiegando che se non recuperava i propri fondi, sarebbe stato rovinato e avrebbe dovuto esigere il rimborso immediato di tutti i prestiti fatti al Comune.
Per evitare questo disastro, il sindaco, invece di dare i soldi agli abitanti del villaggio perché pagassero i propri debiti, diede i soldi al banchiere (che era, guarda caso, suo caro amico e primo assessore).
Eppure quest'ultimo, dopo aver rimpinguato la tesoreria, non cancellò i debiti degli abitanti del villaggio ne quelli del Comune e così tutti continuarono a rimanere immersi nei debiti.
Vedendo il proprio disavanzo sul punto di essere declassato e preso alla gola dai tassi di interesse, il Comune chiese l'aiuto dei villaggi vicini, ma questi risposero che non avrebbero potuto aiutarlo in nessun modo poiché avevano vissuto la medesima disgrazia.

Su consiglio disinteressato del banchiere, tutti decisero di tagliare le spese: meno soldi per le scuole, per i servizi sociali, per le strade, per la sanità ... Venne innalzata l'età di pensionamento e licenziati tanti dipendenti pubblici, abbassarono i salari e al contempo le tasse furono aumentate. Dicevano che era inevitabile e promisero di moralizzare questo scandaloso commercio di asini.
Questa triste storia diventa più gustosa quando si scopre che il banchiere e i due truffatori sono fratelli e vivono insieme su un isola delle Bermuda, acquistata con il sudore della fronte.

Noi li chiamiamo fratelli Mercato.

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Quelli che sfruttano le risorse in Africa,sono gli stessi che sfruttano l'Europa.
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mercoledì 12 ottobre 2011, ore 11:24
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Messaggio Re: racconti brividosi...
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prossimamente al cinema:" il SignorAggio degli aSInelli"

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Messaggio Re: racconti brividosi...
Di questo racconto brividoso, non capisco perchè poi gli abitanti si sono ricomprati gli asini.
In ogni caso nel libero mercato, acquistare tutti gli asini, non sarebbe consentito dalle regole.
Il problema è che qualcuno ha lasciato che il banchiere acquistasse tutte gli asini, assumendone il monopolio e quindi è ovvio che poi può fare i prezzi che vuole.
La colpa è dei governati di quel paese di asini, non del banchiere.

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Messaggio Re: racconti brividosi...
ryoga ha scritto:
ç_ç ç_ç ç_ç ç_ç ç_ç ç_ç ç_ç

prossimamente al cinema:" il SignorAggio degli aSInelli"

:lol: :lol: :lol: :lol: :lol:
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Messaggio Re: racconti brividosi...
La spada del conte

Stavano per arrivare alla loro meta, un vecchio maniero antica dimora del conte di Tenloone. Lucy era stata previdente ed aveva messo nella sua borsa, nel caso fossero servite, due ombrelle: una per lei e una per il fratello che stava viaggiando con lei. Era una grande appassionata di romanzi gotici ed era affascinata da ambientazioni medievali, torri, castelli e rovine. Aveva deciso di recarsi a visitare l’antica dimora del conte di Tenloone che rispondeva bene ai suoi modelli di ricerca. Il fratello, David, aveva accettato tacitamente di accompagnarla: era, infatti, muto dalla nascita. A dispetto di questo Lucy era in grado di poterlo capire in ogni suo pensiero, desiderio e necessità. David aveva deciso di accompagnarla per evitare di rimanere a casa da solo.

Stava piovendo copiosamente e, mentre David si affrettava a prendere le ombrelle dalla borsa delle sorella, Lucy era fremente per il fatto di aver avvistato l’antico maniero sulla collina. Non era molto distante: mancavano pochi altri passi di cammino. David diede un colpetto sulla spalla della sorella per farle vedere di aver appena aperto l’ombrella e per invitarla a coprirsi. I fratelli s’incamminarono sotto la pioggia coperti dall’ombrello. Seguirono un sentiero battuto fra le alte felci, al termine del quale salirono degli alti scaloni di roccia di differente misura, alcuni dei quali rovinati dal tempo.

Il maniero del conte era noto non tanto per il suo sfarzo e la ricchezza delle suppellettili ma per un’antica leggenda che narrava della sanguinosa morte della contessa, Lady Tenloone, moglie del conte, avvenuta almeno trent’anni prima. Quasi tutte le cronache dell’epoca avevano evitato di riportare quella tragica notizia ma velocemente si erano diffuse cattive voci che parlavano del conte come massacratore della moglie, una giovane donna di lignaggio gallese. Dopo quel massacro, il conte aveva lasciato tristemente la sua casa dopo essere stato assolto dall’accusa di omicidio in un simulacro di processo. Nessuno aveva più saputo niente di lui, quasi sicuramente era morto. Erano passati troppi anni. Le chiacchiere del popolo erano ben presto divenute leggenda: l’antico maniero era luogo maligno e nefasto, il conte aveva assassinato sua moglie massacrandola con l’utilizzo di una delle spade da lui collezionate. Secondo la leggenda popolare, chi si avvicinava alla piccola fortezza, vi entrava, o semplicemente desiderava potervi entrare, andava sicuramente incontro alla morte. Lucy ovviamente era a conoscenza di tutto questo ma forse non credeva nel vero senso delle parole di queste storie che riteneva leggendarie e frutto del genio di gente annoiata. Non era impavida, era solo curiosa. Niente l’avrebbe osteggiata.

Giunti dinnanzi al maniero, anche Lucy rimase senza parola. Il castello era in evidente stato di rovina e di abbandono: alcune torri erano fortemente danneggiate e in alcune parti del tetto si scorgevano delle rotture e parti delle vecchie travi. Il castello era costruito secondo la vecchia maniera di costruire castelli, con grandi massi biancastri di diverse dimensioni, tipici della zona. Anche la facciata principale evidenziava una sorta di deterioro del maniero con vistose crepe che minacciavano un’imminente pericolo. Al maniero si accedeva semplicemente: l’antica cancellata tipica delle residenze nobiliari qui non era presente; un piccolo vialetto in ghiaia bianca fronteggiato da prominenti e minacciosi cipressi conduceva all’entrata della dimora. Approssimando il passo verso la porta d’entrata David si fece scuro in volto, segno di una grande paura dovuta al luogo sinistro in cui si stava trovando.

Il portone d’entrata era in legno semplice e portava fenditure, crepe e segni dell’attività di tarme. Lucy, come se si trattasse della propria casa, afferrò il pomello dorato del portone ed entrò nel castello con disinvoltura. Era già dentro quando si accorse che David era rimasto ancora al di là della soglia, tanta era la sua paura di entrare. Invitò il fratello ad entrare e quest’ultimo, intimorito, le se approssimò quasi tenendola per braccio.

Quello che in tempi remoti avrebbe dovuto essere il salone principale della casa nobiliare era ora, alla vista dei due fratelli, un luogo ricco di contraddizioni. Sul massiccio tavolo in legno un vecchio candelabro con delle candele scolate era al fianco di un quotidiano di alcuni giorni prima; sulla poltrona riccamente decorata in fili dorati (forse la stessa poltrona del conte) erano appoggiate delle carte dell’involucro di un gelato, recentemente ivi consumato. C’era qualcosa di strano: la villa era per tutti disabitata ma al suo interno c’erano dei chiari segni di una presenza recente.

Una piccola porticina conduceva ad una grande sala finemente decorata che probabilmente era stato il Santa Sanctorum del conte: la sala delle armi. A fianco della porta d’entrata due armature con pennacchio vigilavano la sala. Si trattava di una delle più grandi collezioni di armi da guerra posseduta dai nobili del regno. Le armi erano disposte in maniera appropriata secondo il loro genere: da una parte le lance (tra le quali si disgiungevano quella argentata e una particolarmente rovinata che probabilmente era stata la privilegiata dal conte) dall’altra parte della stanza le spade, gli spadini, le sciabole e i pugnali: ognuno di essi raccontava una storia e tutti luccicavano come se venissero puliti ogni giorno. Era la presenza stessa del conte in quella casa. Nella loro disposizione si poteva osservare la grande cura e meticolosità del conte stesso.

Alcune spade erano semplici armi da combattimento, altre presentavano nell’elsa ricche decorazioni e gioielli incastonati. Queste ultime molto probabilmente venivano utilizzate dal conte in momenti di festa, in celebrazioni e avevano come solo fine quello di mostrare il suo prestigio. Lucy per la seconda volta in poco tempo, si ammutolì, tanta era stata la sorpresa e la meraviglia provata di fronte a quell’armamentario. Durante la sua attenta contemplazione delle armi da guerra, sfociata nelle sue fantasie di come il conte se ne era servito, di come aveva vinto altri nobili, si era resa conto che erano appena accaduti, forse simultaneamente, due fatti sconcertanti. Era rimasta fortemente sconvolta dal fatto che una spada risultava mancante: tra le varie spade rimaneva infatti una fenditura che segnalava un’omissione nella collezione del conte. Mentre cercava di spiegare questo fatto nella sua mente, si accorse di un’altra mancanza: suo fratello.

David sembrava scomparso. Lucy prese a chiamarlo ma non ci fu nessuna risposta: il fratello era muto. Continuò a cercarlo nella sala delle armi cercando di poterlo sentire nell’atto di far rumore con qualche oggetto, ma non udì niente. Il salone delle armi era molto lungo e scarsamente illuminato, cosicché Lucy decise di prendere un piccolo candelabro a portata di mano. Lo accese e lo portò con sé. Su entrambi i lati maggiori del salone c’erano una serie di portoni in legno e portoncini piccoli che conducevano ad altrettante sale, padiglioni ed aree del castello che, anche agli occhi di Lucy, stava diventando sempre più minaccioso e inquietante.

Lucy si affrettò ad aprire la porticina che le restava più vicino. Notò che era chiusa a chiave e che non sarebbe riuscita ad aprirla. Tentò con la successiva. Era aperta. Si fece strada con la luce del suo candelabro poiché la stanza era completamente buia e non aveva finestre. Si trattava di una stanzetta ovale abbastanza piccola che conteneva oggetti religiosi. Notò subito un crocefisso in legno intarsiato alla cui estremità un topo stava rosicchiandone qualche scheggia. Di dietro, c’erano alcune panche in legno profondamente rovinate dagli insetti. Notò altri oggetti religiosi ma non stette molto ad osservarli, perché stava cercando suo fratello. Pensò solamente che in quella piccola cappella, forse, la contessa aveva pregato o recitato qualche rosario mentre suo marito, nella stanza adiacente, stava trattando di questioni militari con i suoi uomini.

Si lasciò quella stanza ovale alle spalle e ritornò al salone delle armi. Proseguì per il salone ed entrò per una porticina che si trovava al fianco di un vecchio caminetto in marmo e porfido, dagli angoli smussati, forse da qualche colpo incauto di qualche spada. Anche qui era completamente buio e Lucy si avvalse del suo candelabro acceso. Nella stanza era presente un baule in legno con delle grandi aperture di metallo. Decise di aprirlo. All’interno erano riposti, in maniera non molto ordinata, degli arnesi da officina tra i quali una serie di coltelli a serramanico e forbici. Lucy chiuse e continuò a chiamare suo fratello, nel caso l’avesse sentita. Notò poi, quasi per caso, che nel pavimento di questa stanza era presente una botola. Decise di aprirla e si introdusse in quella stanza sotterranea e misteriosa attraverso delle scale in legno molto ripide. Appena messo piede in questa stanza sotterranea il coperchio della botola si chiuse improvvisamente facendo echeggiare un rumore sinistro, come se qualcuno l’avesse colpito con violenza e presunzione. Lucy considerò che d’ora in poi le sarebbe stato impossibile ritornare alla sala delle armi, dalla quale era venuta e cominciò a temere il peggio. All’interno di questa stanza sotterranea faceva particolarmente freddo e a volte si sentivano degli strani fischi, come se ci fossero state delle folate di vento. Le candele si spensero. La disperazione di Lucy accrebbe a dismisura e mentre cercava a tastoni di poter localizzare una porta o un’uscita, casualmente premette le mani in una parete della stanza, costituita da mattoni. Le sue mani avanzarono e inaspettatamente le si aprì un varco nella parete, come un perfetto trabocchetto di un film d’azione.

Seguì per l’unica via che, quasi provvidenzialmente, le si era appena aperta davanti. Un’ulteriore stanza, questa volta illuminata da una serie di candele minacciava la presenza di qualcuno pronta ad attenderla. Su di un tavolino grezzo erano presenti una serie di coltelli affilati, a seghetta e a larga lama. Entrò nella stanza con molta paura. All’interno della stanza vide, di spalle, un uomo esile e tremolante nell’atto di compiere un’operazione meticolosa. Notò poi vicino al vecchio suo fratello imbavagliato (inutilmente) e legato ad una trave di legno completamente nudo. Il vecchio stava per fargli del male. Lucy, esterrefatta, cominciò ad urlare come una pazza e il vecchio si trovò spiazzato. Le disse di non avvicinarsi altrimenti avrebbe torturato sotto i suoi occhi il fratello. Lucy era completamente irrequieta, impaurita e impotente. Assecondò il vecchio di non avvicinarsi a liberare il fratello e, sempre sotto minaccia delle sue armi, riuscì a intrappolare anche Lucy. Il dramma stava per consumarsi. Chissà per quale motivo il vecchio era in procinto di utilizzare tanta efferatezza. L’anziano omino dalla folta barba bianca era coperto da un mantello blu che gli copriva anche le scarpe e indossava uno strano cappuccio a cono interamente di colore rosso. Si avvicinò a David e con una lama lucente lo ferì più volte al costato, non in maniera molto profonda. Mentre il sangue cominciava a colare dal suo corpo la sorella piangeva ed urlava in maniera straziante. Il vecchio si avvicinò poi a David con uno strano strumento a manovella (forse frutto della sua invenzione) al quale era collegato una lama circolare affilata. Approssimò il piccolo apparecchio alla testa di David ed azionò l’apparecchiatura facendo girare molto velocemente la manovella per dare maggiore velocità alla lama. In questo modo mozzò le orecchie a David. Mentre il sangue sgorgava in maniera copiosa dalla sua testa e dal costato la sorella, pietosa e afflitta, non poteva non guardare alle orecchie mozzate di David che si trovavano a terra, a poca distanza l’una dall’altra.

La tortura del giovane non era ancora finita poiché l’anziano massacratore si apprestava a prendere dal tavolo uno strumento diverso che probabilmente sarebbe servito per sortire un effetto diverso dai precedenti. Il vecchio afferrò uno spadino lungo e fino, molto affilato e colpì David al torace trapassandolo. Poi riconficcò questo piccolo palo in ferro nel torace più volte ed infine lo squartò, così come si fa con un pollo. La sorella, nolente, assisteva allo spettacolo cruento del fratello che forse lei avrebbe replicato da protagonista. Mentre David aveva degli ultimi spasmi molto forti e stava spirando, il vecchio assassino estraeva dal suo ventre gli intestini.

Il vecchio era tutto preso da questa attività e Lucy, seppur fortemente scossa, cercò di sfruttare il momento: riuscì a dimenarsi e a slegarsi dai lacci che il vecchio le aveva precedentemente messo. Mentre la donna fece per scappare, il vecchio se ne accorse e, velocemente, prese la più grande spada a portata di mano e la colpì duramente alle gambe, spezzandogliele e privandola della possibilità di camminare. Prima di essere colpita nelle altre parti del suo povero corpo l’ultima cosa che Lucy pensò fu che quella spada, con la quale stava per essere massacrata, era, probabilmente, la spada di cui aveva notato la mancanza nella collezione del conte. Il vecchio si scagliò con grande violenza contro di lei: dopo averle letteralmente spaccato le gambe (un piede si trovava almeno due metri dal suo corpo), il vecchio le diede un colpo talmente forte alla testa che, di fatto, gliela recise dal corpo.

La leggenda del conte massacratore continua ancor oggi ad essere tramandata.

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giovedì 13 ottobre 2011, ore 19:51
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Messaggio Re: racconti brividosi...

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Messaggio Re: racconti brividosi...
CATACOMBE

Soppesando gli ultimi sforzi che avrebbe compiuto sollevando l’enorme lastra, infine si mosse, lasciandola cadere sul duro pavimento. Una nuvola di polvere d’ossa e di sabbia si alzò fino a lui, obbligandolo a socchiudere gli occhi e facendolo tossire un paio di volte. Attese che la polvere si posasse, quindi si sporse sopra l’antica catacomba. Al suo interno il corpo del defunto era oramai irriconoscibile. Rannicchiato, le gambe verso il torace oramai distrutto, la bocca spalancata in un muto grido d’agonia. Anche lui era stato sepolto vivo.
Lo speleologo si tolse il cappello, cercando di farsi aria dentro il caldo opprimente della catacomba. Si guardò attorno, posando lo sguardo su ogni tomba scoperchiata. Erano in tutto venti sepolcri, e ne aveva già aperti sei. Per quanto ancora avrebbe dovuto continuare, prima di trovare quanto cercava? Scosse la testa, avvicinandosi alla tomba successiva. Infilò la grossa sbarra metallica fra la pesante lastra superiore e il sarcofago, e con forza spinse. Debolmente cedette, fino a spostarsi. Spinse con più forza, e la lastra cadde sul terreno.
Lo speleologo si affacciò, e i suoi occhi si illuminarono. Allungò la mano in cui ancora impugnava la sbarra, e colpì con forza il torace del cadavere, sbriciolandolo. Allungò quindi l’altra mano e recuperò quanto rimaneva del suo corpo.
Quando estrasse la mano dalla tomba, osservò con gioia e interesse quanto a lungo aveva cercato. Era il cuore della vittima, ancora vivo dopo tanti anni. Poteva scorgerne il sangue scorrere al suo interno, cadere in minuscole gocce sopra il pavimento, dove si apriva in macchie della dimensione di una piccola moneta. Lo sentiva ancora caldo, come se lo avesse appena strappato dal corpo della sua vittima. Ne sentiva l’odore pungente e dolce allo stesso tempo. Socchiuse gli occhi, avvicinandoselo al naso e gustandone l’odore inebriante. Poi riaprì gli occhi, e con molta calma lo depose dentro un contenitore trasparente. Lo chiuse ermeticamente, e lo infilò nella borsa in pelle che si era portato dietro. La sua ricerca era finita.
Recuperò quanto aveva con sé, quindi si diresse veloce, mantenendo la torcia nella sinistra ad illuminare gli stretti cunicoli, verso l’uscita. Passò nuovamente fra i muri in cui le tombe erano sistemate. Osservò gli ossari lasciati aperti. Scrutò il mausoleo sbarrato in cui non era riuscito ad entrare. E infine, con un brivido, superò il calmo lago che era stato sistemato all’ingresso delle catacombe. Le sue acque erano strette fra sponde squadrate, e il suo fondo era stato dipinto di nero, cosicché non si sarebbe riuscito a vedere nulla di ciò che in esso si trovava. Allungò il passo, e finalmente raggiunse l’uscita. Solo per accorgersi che i suoi compagni non vi erano più, e che lui era rinchiuso per sempre in quel luogo.

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domenica 28 ottobre 2012, ore 12:39
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