Il nuovo calcio (?) si accinge a celebrare, salvo clamorosi sussulti di pudore, uno dei piccoli e dozzinali «Te Deum» che ne addobbano il protocollo liturgico, la rielezione di Antonio Matarrese a presidente della Lega delle società di serie A (venti) e B (ventidue). Uomo per tutte le poltrone, Matarrese era stato riesumato l’8 agosto 2006, all’indomani di Calciopoli, con la benedizione della categoria cadetta, nobilitata, allora, niente meno che dalla Juventus. Don Tonino prese il posto di Adriano Galliani, spinto a dimettersi (anche) dallo «spinga, spinga» emerso dalle bobine di Meani.

E il famoso manager di cui, ogni tanto, si favoleggia? Per carità. E il dirigente diverso in grado di far saltare il cemento (armatissimo) della casta? Era una battuta. Matarrese ha incamerato il voto ponderato (traduzione: nell’urna, le schede della A pesano più di quelle della B) e ha intascato, radioso, i miliardi di euro garantiti, sul fronte televisivo, dall’advisor Infront, il cui vicepresidente è curiosamente Philippe Blatter, nipote, non meno casualmente, di Sepp, sommo duce della Fifa.

Ci sarà qualche giro di valzer fra consiglio federale e consiglio di Lega. Scaramucce periferiche, quando non regolate dalla legge più cara al latinista Lotito, «do ut des». Matarrese può contare sul padrinaggio di Galliani, che nell’estate degli scandali gliel’aveva giurata. Solo le mucche, per aggiornare il celeberrimo aforisma di G. B. Shaw, non cambiano mai canale.

A 68 anni, Matarrese resta la sintesi più nitida della politica all’italiana, fondata sul ritorno del ritorno del ritorno. Dopo di lui, toccherà a Giancarlo Abete, in Federazione. Elezioni mirate e blindate, senza rivali. Anche e soprattutto perché l’unico avversario di chi comanda a Roma rimarrà, nei secoli, chi comanda a Milano. Modiche schermaglie si annunciano, forse, in ambito Aia (Associazione italiana arbitri). La locandina recita: Gussoni versus Nicchi: avesse detto. E sottolineo forse.

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