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racconti brividosi... 
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Messaggio racconti brividosi...
dolcetto o scherzetto?

"Dannato Halloween", grugnì William Scott mentre sbirciava fuori dalla finestra i gruppetti di bambini che si spostavano da una casa all'altra in cerca di dolci e caramelle.
Lui odiava Halloween. L'aveva sempre odiato, fin da bambino, posto che gli fosse mai capitata una cosa orrenda come l'infanzia. A ottantadue anni continuava a detestarlo, così come detestava i mille acciacchi che affliggevano il suo corpo di vecchio. La considerava la festa più idiota dell'universo, persino più idiota di quella di San Valentino. Quei cerebrolesi in costume suonavano il campanello di continuo, dondolandosi sulle gambette in attesa che lui venisse ad aprire. Protendevano le loro mani e lo fissavano con quegli occhietti capaci di intenerire un qualsiasi adulto dotato di un briciolo di istinto materno o paterno. Tranne lui. Perché lui li odiava in modo viscerale, ecco dove stava la differenza. Durante l'anno i bastardi non facevano altro che ideare scherzi crudeli ai suoi danni, per poi presentarsi ad Halloween sulla soglia di casa con l'aureola sopra la testa.
"Piccoli mocciosi..." sussurrò tra le pieghe di una smorfia di puro disgusto. Li vedeva dalla finestra e scuoteva la testa. Ce n'erano a decine, là fuori. Saltellavano, gridavano, sghignazzavano. Avrebbe venduto l'anima al diavolo in cambio di un acquazzone di acido solforico. Poltiglia d'infanti lungo tutte le strade. Il sogno della sua vita.
Aggrottò le sopracciglia quando vide Casper il fantasmino e Dracula il vampiro che si avvicinavano alla sua porta. Li guidava una bambina che calzava sulla testa una zucca di Halloween di plastica. La zucca era intagliata come si usa fare con quelle vere, con due triangoli al posto degli occhi, uno per il naso, e una zigzagante linea incurvata all'insù per bocca. Il suo travestimento finiva lì. Di seguito venivano un normalissimo vestitino bianco e un paio di scarpette nere di vernice.
"Ma che cariiini..." sibilò William ghignando. Il suo viso era una ragnatela di rughe, maschera di una vecchiaia acida e solitaria. Udì il campanello e si voltò verso la porta.
"Hanno davvero il coraggio di venire qui?" chiese sorpreso alla stanza vuota. Il campanello suonò di nuovo e i suoi occhi acquosi si animarono di odio e disprezzo. "Ah, sì? Adesso vi faccio vedere io."
Andò alla porta e la spalancò di colpo. Casper e Dracula trasalirono e lo fissarono intimoriti. Lui ne fu contento. Non riusciva a vedere l'espressione della bambina, ma era più che sicuro che anche lei si fosse spaventata.
"Dolcetto o scherzetto?" chiese la bambina. Tese la mano verso di lui senza esitare. La sua voce era soffocata da quella specie di casco arancione che indossava, ma William ebbe comunque l'impressione che fosse troppo matura per la sua età.
"Andatevene via, stupidi mocciosi", brontolò.
La bambina non si scompose. Prese a dondolarsi sulle gambette, proprio in quel modo che lui odiava, e ripeté: "Dolcetto o scherzetto?"
"Ma quale dolcetto e scherzetto!" gracchiò William. "Se non ve ne andate subito, io..."
"Dolcetto o scherzetto?" chiese di nuovo la bambina.
Perplesso, William fissò i due triangoli che la zucca aveva per occhi, cercando di vedere qualcosa. Il buio. Non gli riuscì di scorgere il più vago particolare del suo viso. Sembrava che dentro la zucca non ci fosse proprio nessun viso da vedere. Allungò una mano e batté le nocche sulla plastica arancione. Ne ricavò il rumore di due colpi dati a un contenitore di plastica vuoto.
"Dolcetto o scherzetto?" fece la bambina. Stessa cantilena, stessa intonazione. Come una bambola parlante.
"Ma sei sorda?" chiese William. "Ho detto di levarti dai piedi!"
"Dolcetto o scherzetto?"
William scosse la testa. "Non sei sorda, sei soltanto stupida. Levati dai piedi."
"Dolcetto o scherzetto?"
Infuriato, William fece uno scatto in avanti e ringhiò per spaventarla. Casper e Dracula fuggirono all'istante. Lei invece rimase dov'era.
"Non hai paura?" chiese William con voce pacata ma piena di minaccia.
La zucca fece segno di no e la bambina tese la mano un po' di più. "Dolcetto o scherzetto?"
"Io non ti do proprio nessun dolcetto, piccola rompiscatole."
"Scherzetto?"
"Ma certo, fammi questo scherzetto. Vediamolo, il tuo scherzetto. Voglio proprio vedere cosa..."
La bimba si frugò in tasca e tirò fuori un sacchettino di pelle nera, accuratamente chiuso con un laccio. Lo tese verso di lui e disse:"Scherzetto."
"Che cos'è?" domandò William lanciandole uno sguardo truce. Quella mossa non se l'era proprio aspettata. Avrebbe giurato che nel giro di qualche secondo gli sarebbero piovute addosso un paio di manciate di coriandoli o di stelle filanti. Lui naturalmente avrebbe dato in escandescenze e la bambina sarebbe scappata di corsa, sghignazzando stupidamente come facevano tutti i cerebrolesi della sua età. Invece la piccola vipera gli porgeva un sacchettino misterioso che, malgrado tutto, era riuscito a catturare la sua curiosità. "Avanti, che cosa sarebbe questa stupidaggine?"
"Scherzetto", rispose tranquilla la bambina e agitò il sacchettino per invitarlo a prenderlo.
"Cosa c'è lì dentro?"
"Scherzetto", ripeté la bambina e fece dondolare ancora il sacchettino. "Scherzetto, scherzetto, scherzetto!"
L'espressione sul volto di William passò dal disprezzo alla compassione. "Piccola idiota. Lo sa tua madre quanto sei idiota?"
Il sacchettino smise di oscillare e le orbite vuote della zucca lo fissarono in silenzio. La bambina depositò il sacchetto sullo zerbino.
"Niente dolcetto, perciò scherzetto", sentenziò. Gli voltò le spalle e trotterellò via, andando a unirsi agli altri bambini.
"Che scherzetto del cavolo", borbottò William e posò gli occhi sul piccolo oggetto che giaceva in mezzo allo zerbino. "Te lo do io, il dolcetto, se ti pesco un'altra volta a suonare il mio campanello." Si guardò attorno per assicurarsi che l'odiosa bambina non lo stesse tenendo d'occhio. Non si vedeva nessuna zucca arancione spuntare tra le testoline dei bambini che transitavano davanti a casa sua. Si chinò e prese il sacchettino per il laccio. Rientrò in casa e sedette sul divano. Tastò con cautela l'involucro di pelle nera per cercare di indovinare cosa contenesse, ma alla fine dovette ammettere di avere le idee piuttosto confuse. Sbuffò seccato e si decise a sciogliere il laccio. Quindi lo scosse vigorosamente per farne uscire il contenuto.
Lo scorpione cadde sulla sua coscia destra, alzò il pungiglione e lo affondò nella carne della gamba, rapido e spietato.

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giovedì 16 ottobre 2008, ore 21:52
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ussignur

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è iniziato tutto nel silenzio e finirà nella stessa maniera...in silenzio...anche se le grida,le urla saranno solo dentro...


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così si impara :evil: :evil:

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UNA CASA PER HALLOWEEN

Quando la vedemmo ci fulminò tutti. Si può dire che ci conquistò prima ancora che la potessimo guardare una seconda volta, per ripensarci. Voltammo la pagina patinata del catalogo di “Mille Avventure”, l’agenzia di viaggi dell’ex moglie di Chico, e la trovammo. Ci trovò. La nostra casa di Halloween.
Noi quattro, io, Chico, Palace e Jonny, avevamo una serie di “posti di Halloween”. Ogni anno uno diverso. La “Valle di Halloween”, il “Paese di Halloween”, l’“Isola di Halloween” e così via. Un posto sempre diverso, che fosse un po’ misterioso, almeno per noi. La “Casa di Halloween”, se ne stava in riva a un laghetto di montagna, in una valle che era solo quello e lei. Si specchiava in quella polla d’acqua blu scuro con la vanità di una sirena. Tentatrice. Praticamente eravamo gia là.
Spuntammo dall’altra parte del lago, alla fine di una strada, che continuava a contorcersi in un susseguirsi continuo di tornanti: sembrava avesse deciso di non fare quella consegna, di non portarci lì. Chico e Palace continuavano a dirmi di accelerare, che non vedevano l’ora di scendere dal mio maggiolone scassato. Il maggiolone era la “Macchina di Halloween”. Eravamo quattro quarantenni fumati che avevano affittato una casa rossa, chiusa in una valle boscosa, per fare i ragazzini una notte di fine ottobre.
Niente alcol nei posti di Halloween, fumo quanto ne volevi, ma niente alcol. La casetta rossa aveva le finestre bordate di bianco e un aspetto un po’ trasandato, obliquo….da Halloween appunto. Il tetto, azzurro pallido, sembrava avvolto in una di quelle carte-regalo che di solito nascondono qualcosa che non ti piace. Tutt’intorno, la foresta, interrotta dalla stradina anonima che ci stava portando là. Davanti al portico, come una lingua sull’acqua immobile, un piccolo molo. Nessuna barca. Nell’aria limpida ebbi l’impressione di essere caduto nella foto dell’agenzia.
Dovevamo restare una settimana. La notte d’Ognissanti, dopo aver fatto festa, eravamo usciti sul portico un po’ sbilenco a ululare alla luna, per fermarci poi in riva al lago a raccontare storie brividose, come le definiva Jonny. Ci eravamo aspettati le stelle e un freddo limpido e avevamo scoperto invece una nebbiolina soffice, morbida, che ci deliziò immergendoci ancora di più nell’atmosfera.
I primi furono Jonny e Palace, due giorni dopo il nostro arrivo. Uscirono l’uno per prendere legna, l’altro per fare una pisciatina. A Palace faceva schifo il bugigattolo che faceva da cesso alla casa, una turca incrostata di giallo, fetida e scivolosa. La catasta era a meno di dieci metri dalla porta d’ingresso e probabilmente si diressero tutti e due là perché, appena dietro, c’erano tutti gli alberi del mondo per farla al freddo della notte. Erano passati forse cinque minuti, forse di più che Chico mi chiese:
«Ma che fanno quei due?» con un sorriso che non raggiungeva gli occhi. Sembrava un ragazzino che se la sta facendo sotto ma non vuol darlo a vedere. Io allargai le braccia e mi alzai. L’unica era andare a controllare. Il mio amico si alzò di rimando rovesciando quasi la sedia. Ricordo che ne pensai male. Lo paragonai a una donnetta isterica. ca**o, se mi sbagliavo! Spalancai la porta e sentii la nebbia. Era come un lenzuolo bagnato che tentava di soffocarmi. Vagava lenta, raggrumandosi in qualche punto, formando macchie dai contorni fumosi nella sua languida lattescenza. Sentii la mia mano serrare la maniglia della porta come fosse un ultimo punto di appoggio affacciato su un mondo ostile. Chico fiatava sulla mia spalla.
Uscii sulla veranda. La sensazione d’oppressione peggiorò, dandomi l’idea di essere chiuso in una stanza di manicomio, una stanza imbottita che assorbiva ogni mio tentativo di richiamo agli amici scomparsi. Il portico sembrava la bocca sdentata di una belva. Il lago era assolutamente invisibile dietro un muro bianco che iniziava a metà del piccolo molo.
«E se fossero caduti in acqua?» azzardò quasi piangente Chico.
«Non dire stronzate: erano in due e ne avremmo sentito almeno uno chiamare aiuto.» Replicai brusco.
Un velo di sudore freddo mi raggelava la fronte, mischiandosi con l’acquerugiola rancida della nebbia che mi contornava. Abbandonai il portico con Chico che si era attaccato a un lembo della mia camicia da boscaiolo. Ci incamminammo verso la catasta.
Dopo dieci passi la casa era già la sfumata grotta di un incubo grigio. Sembrava un tumore della nebbia, scuro, muffo, indefinito. La catasta si disegnò a poco a poco. Prima di arrivarci, nemmeno a dieci metri dalla porta di quella strana casa, la nebbia si animò.
Un gemito che entrava nelle ossa, che seccava la lingua, incollandola al palato. Chico emise un verso disperato, un singhiozzo di terrore infantile, mi voltai e mi trovai a due centimetri dai suoi occhi, persi nella febbre della paura. Sembravano fatti di gelatina liquida, erano l’unica cosa davvero in vista in quell’oscuro grigiore di mondo morto.
Eravamo alla catasta di legna. Non c’era traccia dei nostri amici. Davanti a noi il buio senza spiragli della foresta. Gli alberi di quell’intrico frusciavano, emettendo una sorta di lamentoso respiro. La nebbia era immobile e invasa da strani suoni, uggiolii, forse sospiri.
Ancora una volta quel verso. Quel lamento tronco si accompagnava a uno strano mutare della nebbia che tendeva ora al viola. Facemmo ancora una ventina di passi. Arrivammo vicino a uno di quegli alberi. Chico mi tratteneva stringendomi una spalla. Mi chiedeva di non andare più avanti, di tornarcene nella casa.
Il fusto dell’albero era liscio. Il colore non lo vidi mai. Nell’oscurità totale e nella nebbia, che ci aveva definitivamente serrato in un nulla umido e maleodorante, le mie mani sentirono quel tronco. Era caldo. Sembrava di avere le mani sul ventre di qualcuno: la superficie pulsava. Non appena l’ebbi toccato la mia mente fu invasa dall’immagine di una bocca sanguinolenta che si serrava. Ritrassi il braccio con un sibilo di ribrezzo e di terrore. Avvicinai la mano al viso convinto di vederne i resti straziati tanto era stato il dolore ottenebrante che avevo provato e che continuava a echeggiarmi nella mente.
«eheheheh» La risata di un bambino. Non era allegra. Era una specie di imitazione, trasmetteva famelica crudeltà.
«ca**o, Nick, leviamoci di qui!» fu il sussurro sfibrato di Chico.
Non aveva la forza di andarsene da solo. Non perché mi fosse amico, e lo era. Semplicemente, non ce la faceva ad avventurarsi da solo in quell’inferno d’ovatta grigia.
Lo assecondai volentieri. Ci voltammo e prendemmo a correre. Non ci sembrava di esserci allontanati troppo dalla casa. Nonostante ciò arrivammo a scorgere nuovamente la sua brutta sagoma quando eravamo ormai senza fiato.
Dovevamo cercare i nostri amici in mezzo a quel deserto grigio-viola?
Dovevamo salvare la pelle?
Non abbiamo avuto scelta. Forse io mi stavo dirigendo verso il porticato di legno, forse verso il maggiolone. Forse Chico mi ha seguito perché era convinto che davvero stessimo abbandonando quel posto. Non so chi avesse avuto ragione.
Ma la Macchina di Halloween non c’era più. Davanti a noi solo il fantasma evanescente di quella maledetta casa, che sembrava l’incubo di un delirante.
«Eheheheheh»
Ancora quella risata maledetta.
Un odore marcio e dolciastro, di cadaveri in putrefazione. Un biascicare acquoso liquido, gorgogliante dal lago veniva verso di noi. Ci precipitammo verso l’indefinito contorno della casa.
Da allora non ho visto più l’alba. Non è mai più sorto il sole.
Secondo il mio orologio sono passati due giorni.
Mezz’ora fa ho visto l’ultima volta Chico. Doveva andare in bagno. Anche lui. Solo che in bagno, in quel puzzolente stanzino, non c’è nessuno. Ho controllato dieci minuti fa. Forse dovrei cercarlo. Forse dovrei scappare. Ma dovrei comunque uscire. Fuori. Nella nebbia.
Ho solo la forza di avere paura.
Ma adesso so. Lo sospettavo, ma quando sono tornato dalla latrina senza la minima idea di dove fosse finito Chico, ne ho avuto conferma.
Il vecchio pavimento di legno scuro è sporco di sangue. Una lunga striscia attraversa tutta la stanza. Fino alla porta. Socchiusa. Dallo spiraglio grigio e fumoso la nebbia sta cominciando a mangiare la porta. Lo so, sembra impossibile, ma lo stesso la vedo, evanescente e fumosa, avvolgere la porta trasformandola in una figura indefinita. L’uscio è a meno di sei metri da me, la nebbia a meno di cinque, e già non riesco a più a distinguere il legno dal grigio. Magari potrei provare a richiudere la porta, ma non sono sicuro che la troverei. Comunque non credo che servirebbe a fermarla.
Non posso più rimanere qui. La nebbia si sta avvicinando col suo strano odore. Nel suo vorticare distinguo qualcosa di confuso, indefinito, non può essere che una persona. Io so già chi è.
Posso solo sperare che il Chico di nebbia si ricordi di me…

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venerdì 17 ottobre 2008, ore 18:08
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ierè, ma dove le prendi queste storie ?? sonot roppo belle !

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dionisio ha scritto:
ierè, ma dove le prendi queste storie ?? sonot roppo belle !


ma xkè,riesci a leggerle tutte? :shock:

a putenza dò malucchiffari... :lol:

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Smoking Bianco ha scritto:
dionisio ha scritto:
ierè, ma dove le prendi queste storie ?? sonot roppo belle !


ma xkè,riesci a leggerle tutte?
:shock:

a putenza dò malucchiffari... :lol:

ci metto 5 minuti .. sono veloce !

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dionisio ha scritto:
Smoking Bianco ha scritto:
dionisio ha scritto:
ierè, ma dove le prendi queste storie ?? sonot roppo belle !


ma xkè,riesci a leggerle tutte?
:shock:

a putenza dò malucchiffari... :lol:

ci metto 5 minuti .. sono veloce !


Sei 5000 turbo benzina?

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dionisio ha scritto:
Smoking Bianco ha scritto:
dionisio ha scritto:
ierè, ma dove le prendi queste storie ?? sonot roppo belle !


ma xkè,riesci a leggerle tutte?
:shock:

a putenza dò malucchiffari... :lol:

ci metto 5 minuti .. sono veloce !


dionì vedi che 5 minuti per un racconto di quella lunghezza, sono troppi :roll:

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didi79 ha scritto:
dionisio ha scritto:
Smoking Bianco ha scritto:
dionisio ha scritto:
ierè, ma dove le prendi queste storie ?? sonot roppo belle !


ma xkè,riesci a leggerle tutte?
:shock:

a putenza dò malucchiffari... :lol:

ci metto 5 minuti .. sono veloce !


dionì vedi che 5 minuti per un racconto di quella lunghezza, sono troppi :roll:


:asd2: :asd2:
gia' :asd:

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didi79 ha scritto:
dionisio ha scritto:
Smoking Bianco ha scritto:
dionisio ha scritto:
ierè, ma dove le prendi queste storie ?? sonot roppo belle !


ma xkè,riesci a leggerle tutte?
:shock:

a putenza dò malucchiffari... :lol:

ci metto 5 minuti .. sono veloce !


dionì vedi che 5 minuti per un racconto di quella lunghezza, sono troppi :roll:

pazienza..

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sabato 18 ottobre 2008, ore 0:27
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Smoking Bianco ha scritto:
dionisio ha scritto:
ierè, ma dove le prendi queste storie ?? sonot roppo belle !


ma xkè,riesci a leggerle tutte? :shock:

a putenza dò malucchiffari... :lol:


riccà...è un racconto...se non lo leggi tutto non vedo come fai a sapere il finale.. :roll: :roll: :D

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LA NOTTE IN CUI CAMMINANO I MORTI

Non faceva affatto freddo, quella notte. Eppure la giornata era stata rigida, sembrava di essere tutto d’un tratto entrati in pieno inverno, a dispetto del calendario.
Anche le previsioni meteorologiche avevano detto che su tutto il paese era in arrivo una perturbazione che avrebbe portato temperature molto al di sotto della media stagionale.
Avevano anche fatto vedere la ricostruzione grafica delle correnti d’aria fredda che si addensavano minacciose. E invece, dannazione, quella sera la temperatura cambiò bruscamente.
Mi ero messo il piumino pesante, quello che usavo la notte di Capodanno per andare a sparare i botti con gli amici, tanto per dire, e avevo caldo.
La verità è che le stagioni non sono più quelle di una volta. Quando ero piccolo, e parlo di non più di trent’anni fa, le temperature seguivano il regolare corso della natura, come dovrebbe essere. Guardavi il calendario, era autunno, e faceva un tempo autunnale, se era inverno dovevi coprirti bene, e l’estate faceva caldo. Ditemi voi se adesso è lo stesso. Forse sono io che non riesco ad adattarmi, ma ormai non ci si può regolare. Un giorno è inverno e il giorno dopo c’è un sole che spacca le pietre, e magari tutto questo succede a dicembre. O addirittura, come quella sera, la temperatura cambia da un minuto all’altro.
E se il freddo della giornata era stato innaturale, altrettanto lo era il caldo di quella sera. Senza il calendario a portata di mano non sarebbe stato possibile neanche tirare a indovinare quale stagione fosse, figuriamoci il giorno esatto. Per fortuna, a confortarmi nel caso avessi avuto un vuoto di memoria, c’era il calendario dell’orologio della macchina. Era la sera del 1 novembre.
Uscii di casa poco dopo le undici e quaranta. Dovevo fare il turno di notte nel palazzo in cui lavoravo come custode, e avrei dovuto prendere servizio di lì a un’ora.
Mi piace guidare di notte, o almeno mi piaceva farlo da ragazzo, poi purtroppo il lavoro durante il giorno ha cominciato a svuotarmi delle energie. Appena entrato in macchina, mi resi conto una volta di più che avevo fatto male a dar retta alle previsioni, e che con il piumino addosso avrei fatto una sauna. Non mi andava di fermarmi subito per togliermelo, così smanettai un po’ con la manopola del condizionamento per regolare la temperatura, ma il climatizzatore non diede segni di vita. Non era la prima volta che mi succedeva, perciò non ci feci caso, e mi limitai a ripetere per l’ennesima volta che alla prima occasione avrei cambiato quello scassone di macchina.
La strada era vuota, sia di pedoni che di altre auto. C’è tanta gente superstiziosa che preferisce non andare in giro la notte dei Morti. Improvvisamente mi tornò alla memoria un giorno di una trentina di anni prima. Avevo forse dodici o tredici anni, e anche allora era la notte fra l’1 e il 2 novembre. Non solo, ma anche quella notte il termometro sembrava impazzito e faceva caldo come in estate.
Insieme ad un paio di amici, ci eravamo messi in testa di passare la notte dei Morti in maniera diversa dal solito, così avevamo detto ai nostri rispettivi genitori che saremmo andati a dormire da uno di noi, che a sua volta aveva casa libera perché i suoi erano fuori città. Oggi la moda di Hallowen si è diffusa anche da noi, ma a quell’epoca ne sapevamo poco. Sapevamo solo che in America, la notte di Ognissanti i bambini si vestivano come a carnevale e andavano in giro a bussare alle porte.
Noi ci limitammo a prendere spunto da questo, perché quello che volevamo fare era diverso. Abitavamo non lontano dal cimitero, e la nostra idea era quella di andare in giro con dei lenzuoli, o con le facce dipinte di bianco, come dei fantasmi, per spaventare i malcapitati che si trovavano a passare. Era un sabato sera, quindi non avevamo il problema di doverci alzare presto la mattina dopo.
Coincidenza singolare, a cui feci caso solo guardando il display dell’orologio, anche quella sera era un sabato. Altra coincidenza, il palazzo in cui dovevo andare a lavorare era vicino al cimitero, anche se era stato costruito di recente.
Il tragitto cominciava ad essere noioso, perciò scelsi un cd da quelli che tenevo in macchina e lo inserii nell’apposita fessura dello stereo. Immediatamente le note di un pezzo dei REM riempirono l’abitacolo.
Poi sentii uno scatto. L’orologio del cruscotto adesso segnava tre zeri, e annunciava che era domenica. Era il 2 novembre.
Nello stesso momento, lo stereo smise di suonare, il lettore cd si spense e sputò fuori il cd. Ci soffiai sopra e lo inserii di nuovo. Schiacciai Play, ma il cd uscì di nuovo fuori. Scelsi un cd di Michael Jackson e lo inserii nello stereo. Stessa storia. Presi dal mucchio un altro cd e lo inserii. Niente. Evidentemente la macchina non era l’unica cosa da buttare.
Aprii il cassetto portaoggetti e scelsi una delle cassette che avevo lì. Ne scelsi una degli Aerosmith e la inserii nell’autoradio. Solo dopo due minuti mi resi conto che ancora non aveva emesso alcun suono. Mandai avanti veloce, ma era come se avessi inserito una cassetta vergine. Semplice, pensai, a forza di stare lì dentro si è smagnetizzata. Ne ebbi la conferma con una seconda cassetta, dei GN’R. Mi fermai per cercarne una che fosse rimasta intatta. Trovai una compilation dei Beatles che sembrava in buone condizioni. La azionai e finalmente lo stereo tornò a trasmettere musica. Di pessima qualità, però. Non per la musica dei Beatles, intendiamoci, ma proprio per il suono. Erano più i fruscii che le note, sembrava una registrazione d’epoca. Non potei resistere a lungo a quello strazio, così tolsi la cassetta e accesi la radio. La mia stazione preferita era saltata. Attivai la ricerca automatica delle frequenze.
Teoricamente, in pochi secondi avrei dovuto trovare una stazione. Invece niente, e quando abbassai lo sguardo sul display mi accorsi che correva a velocità folle dagli 87.5 ai 108 MHz senza trovare una sola stazione. Non sapevo se ridere o piangere, era impossibile che fossero saltate tutte le radio
‘Proviamo con l’AM’ mi dissi, e disattivai la modulazione di frequenza. L’AM funzionava e stava trasmettendo Ruby Tuesday dei Rolling Stones. La ascoltai per un po’, poi cercai altrove. Su un’altra stazione c’era Bob Dylan, con Mr. Tambourine Man.
”Let me forget about today until tomorrow”
Non potei fare a meno di pensare che erano dischi in classifica tanti anni prima, forse anche quella fatidica sera in cui avevamo deciso di vestirci da spettri.
‘ Ma che è, una serata revival?’ reagii infastidito, e azionai di nuovo la ricerca automatica.
Sembrava ci fossero solo tre canali, e il terzo trasmetteva quello che sembrava un notiziario, ma mi accorsi subito che c’era qualcosa di strano
‘ Questa mattina il presidente degli Stati Uniti d’America, in visita a Nuova York ha parlato dell’intervento in Vietnam, rassicurando la folla accorsa ad assistere al suo discorso. Intanto, la polizia disperdeva i numerosi manifestanti pacifisti i quali…’spensi immediatamente, infastidito dalla voce metallica del cronista, più che dalle parole. Probabilmente trasmettevano documenti d’epoca. Provai a cercare manualmente una stazione, ma appena la toccai, la radio si spense. E immediatamente dopo anche la macchina.
Così, senza preavviso, senza che si illuminasse una qualche spia rossa o qualcosa del genere. Semplicemente si spensero motore e quadro di comando, come se qualcuno avesse staccato i fili.
Ero fermo in mezzo alla strada deserta. Provai a rimettere in moto, ma né motore né batteria diedero segni di vita, come se non esistessero.
Presi il cellulare, ma ovviamente non c’era campo, e appena lo toccai per provare a fare una chiamata d’emergenza, la batteria si scaricò e il display si spense.
Non potei far altro che scendere dalla macchina. Aprii il cofano, dentro sembrava tutto a posto, ma io di motori non ci capisco un’acca.
Comunque c’era poco da capire, la macchina mi aveva abbandonato e dovevo farmela a piedi.
Non doveva mancare molto, ma non riuscivo ad orientarmi bene perché quella strada, di notte, sembrava diversa. Non c’erano molti lampioni, e così le case, i cartelli, il paesaggio, insomma tutte quelle cose che potevo prendere come punti di riferimento, erano inghiottite dalle tenebre.
Salii sul marciapiede e mi incamminai sul sentiero alberato, di cui non vedevo l’inizio né la fine, ma solo il breve paesaggio cui passavo affianco, e che mi sembrava tutto uguale. Non è così anche la vita?
Proseguii per non so quanti minuti. Anche se non riuscivo ad orientarmi, dovevo essere ormai arrivato. Non c’era possibilità di sbagliare, da casa mia al lavoro bisognava percorrere un’unica strada dritta, senza mai abbandonarla, e mi trovavo subito nel parcheggio.
Invece ero in strada ormai da mezz’ora e non ero ancora arrivato. Era troppo buio per guardare l’orologio, ma doveva essere mezzanotte e un quarto, forse la mezza.
Più o meno l’ora in cui, tanti anni prima, i miei amici ed io avevamo terminato di spalmarci la faccia di bianco, di passarci il nero sotto gli occhi e vestirci con dei sacchi che dovevano occultare le nostre fattezze. Ci eravamo guardati nello specchio e quasi eravamo morti di paura. Sembravamo davvero degli spettri come si vedevano nei fumetti di paura che qualcuno faceva girare a scuola, o come in certi film americani che andavamo a vedere al cinema, di nascosto. Ma i trucchi di quei film erano meno riusciti di quelli che avevamo escogitato noi, o almeno era la nostra impressione.
Uscimmo fuori, correndo da un lato all’altro della strada deserta, lanciando urla e agitando le torce elettriche che tenevamo sotto i vestiti e che contribuivano a circondarci di luce.
Passarono solo un paio di auto, e noi ragazzi ci divertivamo ad attraversare la strada all’improvviso mentre i fari delle auto illuminavano le nostre spaventose fattezze. Più di un’auto rischiò di sbandare e finire fuori strada. Il divertimento però non era come l’avevamo previsto. Spaventare gli automobilisti non dava soddisfazione, non potevamo goderci le reazioni e in più rischiavamo di venire investiti. Ci eravamo conciati in quel modo perché volevamo spaventare i passanti, ma purtroppo si era fatto tardi, e a piedi non passava più nessuno.
Non mi ricordo chi di noi, forse proprio io, propose di andare a suonare alle porte delle case, farsi aprire e spaventare la gente. In quella zona non c’erano tanti condomini, la maggior parte degli edifici erano case isolate, a due piani, con l’ingresso direttamente sulla strada. In alcune case, le luci erano ancora accese. Decidemmo di separarci e dividerci l’isolato in quattro zone di appartenenza, quanti eravamo. Avremmo dovuto suonare e farci aprire, o almeno spingere le persone ad affacciarsi alla finestra e osservare la loro reazione quando ci vedevano. Se si spaventavano, era un punto, se si limitavano ad aprire e guardarci, mezzo punto. Non c’era un giudice, facevamo affidamento sulla nostra buona fede. In palio per chi faceva più punti c’era una squadra del Subbuteo pagata dagli altri tre
- Io quella zona non la voglio- dissi immediatamente, dopo esserci suddivisi l’isolato
- Una zona vale l’altra- ribatterono gli altri –hanno tutte lo stesso numero di case-
- Sì, ma nella mia c’è…- quasi mi vergognavo a continuare la frase. Gli altri avevano capito, e se la ridevano
- Dì un po’, non avrai mica paura dell’Orco?-
L’Orco, lo avevamo soprannominato così quando eravamo più piccoli, era un uomo di età indefinibile, forse sui quaranta, forse sui cinquant’anni, che abitava in una di quelle case. Lo chiamavamo così perché era grosso, curvo, peloso e spaventava i bambini. Non parlava con nessuno, si diceva che bevesse e le nostre mamme ci raccomandavano di stare attenti quando giocavamo lì vicino
- Non è che ho paura- ribattei –solo che se mia madre sa che sono andato da quello…-
- E tu non glielo dire-
- Una volta sono andato da lui- disse Claudio, con il suo fare da adulto –per una raccolta della chiesa. È stato molto gentile-
Non ci credevo, lo diceva per darsi arie, ma non potevo passare per codardo. Così accettai.
Diedi un taglio ai ricordi. Mentre ricostruivo quelle scene di trent’anni prima avevo di nuovo perso la cognizione del tempo. E non ero ancora arrivato a destinazione.
All’improvviso qualcosa ruppe il silenzio della strada. Un vago suono il lontananza che si faceva via via più distinto superando gli alberi.
Era una canzone. Una vecchia canzone. Una voce suadente, una chitarra in sottofondo.
Era Elvis, senza dubbio. E qualche secondo più tardi riconobbi anche la canzone, Don’t be cruel. Le coincidenze cominciavano ad essere troppe.
Già, perché anche quella notte di tanti anni prima avevo sentito risuonare quella stessa canzone. Dalla casa dell’Orco.
Quindi era in casa ed era sveglio, avevo pensato, avvicinandomi al cancello. I miei amici erano già spariti dietro l’angolo e io cominciavo a sudare freddo, tanto che temevo che il trucco cominciasse a sciogliersi.
La canzone di Elvis da un trentatré giri continuava a suonare senza soluzione di continuità. Suonai il campanello e attesi un minuto abbondante, ma l’Orco non venne ad aprire. Forse la musica copriva il suono del campanello, o forse stava dormendo. Ero tentato di andarmene, e mi allontanai di qualche passo. Ma poi mi tornò in mente la squadra del Subbuteo. Ci tenevo troppo, e se l’avessi persa per un solo punto e per colpa della mia vigliaccheria non me lo sarei perdonato. Così tornai indietro e suonai di nuovo al citofono. Non rispose nessuno, ma mi accorsi che il cancello non era chiuso bene. Mi feci coraggio, lo aprii e mi incamminai nel breve vialetto che portava alla casa. La porta era chiusa, suonai al secondo campanello e bussai sul legno della porta. Stavolta mi aveva sentito, prima ancora che dai passi me ne accorsi perché il volume della canzone era stato bruscamente abbassato.
La porta si aprì lentamente, come nei film dell’orrore, accompagnata da un lugubre cigolio.
Io mi ero preparato per urlare e far saltare di paura l’Orco, ma fu tutto vano perché lui, dopo aver fatto scattare la serratura della porta, si voltò immediatamente per rientrare in casa, e non mi degnò neanche di uno sguardo.
Rimasi come un ebete sulla soglia, ad osservare la schiena dell’Orco, che camminava chino, sbilenco, con una bottiglia di birra quasi vuota che gli penzolava dalla mano
- Entra, che aspetti?- mi disse, come se attendesse la mia visita. E rientrò nella stanza da cui proveniva la musica.
Mi decisi a seguirlo. Mi fermai un attimo prima di entrare nella stanza, mi sforzai di assumere un’aria truce ma era impossibile. Come si fa a mettere paura quando si è terrorizzati?
Pensai di nuovo alla squadra del Subbuteo, volevo il Venezia, che era quello con più colori. E avrei insistito perché il mio punteggio valesse doppio, visto che ero entrato in casa dell’Orco.
Forte di questo pensiero, spiccai un salto ed entrai nella stanza
- Buu- urlai all’indirizzo dell’Orco.
Lui mi guardò severo. Aveva i capelli mossi e lunghi, il viso faceva pensare ad un leone, era ispido per la barba di tre o quattro giorni. Non mosse un muscolo, continuò a guardarmi per quella che mi sembrò un’eternità. E poi scoppiò a ridere.
Fu una risata agghiacciante, improvvisa, che sembrava scuotergli le viscere, come un ruggito
- Come ti sei conciato, ragazzino?- disse, cercando di riprendersi dall’ilarità.
Non sapevo che dire. Addio squadra del Subbuteo, pensai. Ma forse, se avessi preso qualcosa dalla casa per dimostrare ai miei amici che ero davvero entrato, potevo avere ancora qualche possibilità. Mi guardai intorno. La casa era immersa nell’oscurità, l’unica fonte di luce era una abat-jour di pochi watt, che diffondeva una luce gialla e sporca. Lui era spaparanzato sul divano, con addosso dei pantaloni di una tuta da lavoro e una camicia a scacchi da boscaiolo, sudicia, e mi osservava incuriosito.
Poi vidi quello che c’era sul divano. In un primo momento non me ne ero accorto perché era mezzo infilato nella fessura del bracciolo, ma non c’era dubbio, era il primo numero di Diabolik. Il primo numero originale di Diabolik. Nonostante fosse di appena una decina di anni prima, era introvabile e valeva una fortuna. Se lo avessi avuto sarei stato ricco. Altro che una squadra, potevo comprarmi tutto il campionato di Subbuteo.
L’Orco seguì il mio sguardo e sembrò leggermi nel pensiero. Prese l’albo e lo sfogliò simulando voluttà
- Bello, vero? L’ho trovato proprio oggi in cantina, non ricordavo neanche di averlo. Io non so che farmene, potrei anche regalartelo- mi guardò –non ti piacerebbe?-
- Sì, signore- riuscii a dire, con la bocca secca
- Cos’è, hai paura? Su, avvicinati. Se sei un bravo ragazzo posso anche regalartelo-
Non sapevo cosa fare, ma la tentazione era troppo forte. Mi avvicinai con gli occhi fissi sull’albo. Non poteva essere rimasto in cantina per tanti anni come aveva detto lui, era in ottime condizioni.
E allora capii che lui mi aveva visto arrivare dalla finestra, e si era preparato. Mi guardava con gli occhi iniettati di sangue e infossati nella faccia, e con un’espressione che non avrei mai dimenticato. Sembrava seduto comodamente, con un braccio a penzoloni oltre la spalliera del divano.
Lo anticipai, quando alzò di scatto il braccio. Nella mano stringeva un bavaglio. Avevo già intuito che c’era qualcosa di strano.
Mi misi a urlare e corsi fuori dalla casa, senza che l’Orco potesse raggiungermi. Così era finita quella notte di tanti anni fa.

Adesso, a trenta e passa anni di distanza, mi trovavo di nuovo da solo nella notte del 2 novembre, la notte in cui i morti tornano a vagare sulla Terra, secondo le tradizioni popolari. E di nuovo mi ritrovavo a sentire le note di quella canzone di Elvis che, a giudicare dalla qualità del suono, non sembravano provenire da un impianto hi-fi ma da un vecchio giradischi.
Finalmente, dopo il suono, vidi la prima luce da parecchi minuti a quella parte. Era una lampada alogena sopra il portoncino d’ingresso di una casa, rischiarava solo il piccolo porticato, che mi era sorprendentemente familiare. Un debole raggio della lampada arrivava anche a rischiarare la targa con il numero civico e il nome della via.
Mi chinai per leggere, e sobbalzai. La via era quella in cui lavoravo, ed il numero civico era proprio quello del palazzo in cui facevo il custode. Ma il palazzo non era quello, al suo posto c’era una palazzina di due piani, con ingresso sulla strada. La riconobbi. Non c’era dubbio, era la casa dell’Orco.
Ma non era possibile, io dopo quella notte lo avevo denunciato, lui era stato arrestato, e poi aveva lasciato la città, la casa era stata abbattuta e al suo posto, ironia della sorte, era sorto il palazzo in cui anni dopo sarei andato a lavorare. Avevo anche assistito alla demolizione di quella casa.
O no?
Sentivo la testa che mi scoppiava, i ricordi si accavallavano a spezzoni di sogni e incubi, che acquistavano la vividezza di vita vissuta o di film che avevo visto. In quel momento non avrei potuto dare niente per certo, ero assalito dal dubbio di essermi inventato tutto. E per tutto intendo anche la mia stessa vita.
Toccai il cancello. Era freddo e umido come quella sera. E come quella sera era aperto. Lo spinsi ed attraversai il breve vialetto ghiaioso. Arrivai alla porta, la stessa porta di legno rinforzato agli angoli. Suonai il campanello. Sentii la voce di Elvis che si faceva più soffusa, poi lo scatto della porta. Girò sui cardini con lentezza esasperante, accompagnata da un cigolio
- Entra, che aspetti?- disse una voce pastosa.
L’uomo che aveva aperto la porta non mi aveva neanche guardato. Mi aveva voltato le spalle e si incamminava nella stanza da cui proveniva la musica. L’uomo era curvo, con folti capelli grigi, e dalla mano pendeva una bottiglia di birra quasi vuota.
Non riuscivo a formulare un pensiero compiuto. Entrai e lo raggiunsi. Non lasciai che si sedesse. Lo strattonai perché si voltasse a guardarmi.
Era lui. Invecchiato di trent’anni, ma era lui senza dubbio, la stessa faccia rincagnata, la fronte bassa, il portamento da rapace
- Ehi, e tu chi sei? Non era te che stavo aspettando- sentii che diceva, ma le sue parole mi rimbalzavano addosso senza che riuscissi a connettere.
A patto che potesse essere ancora vivo, non poteva, non doveva abitare lì, in quella casa, che era stata abbattuta tanto tempo prima.
Ma in una frazione di secondo tutti i miei dubbi si sciolsero e finalmente capii.
Capii
- Sono venuto a prenderti- gli dissi, fissandolo negli occhi da felino ferito –è giunta la tua ora, finalmente. Ti starai chiedendo chi sono. Eppure mi conosci, anche se mi hai visto quando avevo appena dodici anni o giù di lì. Sono diventato grande, o meglio, sarei diventato grande se tu non mi avessi ucciso-
Sbarrò gli occhi, si guardò velocemente intorno alla ricerca di una via di uscita. Non ne aveva, e provò a gridare. Dalla gola gli uscì solo un rantolo, seguito da un fiotto di bava. I muscoli si irrigidirono, la bottiglia di birra cadde a terra in mille pezzi.
E poi cadde a terra anche lui, cercando di slacciarsi la camicia a quadri per respirare, ma inutilmente. Attacco di cuore, la causa di morte più diffusa.
Mi ci erano voluti trent’anni, ma alla fine l’avevo terrorizzato.
Aspettai che esalasse l’ultimo respiro, poi uscii e c’era la luce, era tutto azzurro, luminoso, e anche la mia mente si schiarì.
Quella sera di tanti anni prima non ero riuscito a scappare. Quell’uomo mi aveva afferrato e imbavagliato.
Il mio corpo non era mai stato trovato, la mia anima non aveva trovato pace.
Mi ero così convinto di essere vivo, di essere fuggito, e mi ero costruito una vita immaginaria, mi ero inventato che lui era stato smascherato, e avevo proseguito nell’immaginarmi quella esistenza che non avevo potuto vivere e che era andata avanti finché non era scoccata l’ultima ora per l’Orco, quando tutta la mia vita sognata era andata in frantumi e il mio mondo parallelo si era di nuovo incrociato con quello reale. Corsi e ricorsi. La Morte aveva deciso di sorprenderlo, e di mandarmi ad annunciarla, proprio nella notte del 2 novembre, la notte in cui morti tornano a vivere, la notte in cui aveva compiuto una delle sue tante efferatezze, la notte in cui ero la Morte. La notte in cui, tanti anni prima, ero morto.

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ussignur ! sta storia è troppo bella !!!!
ireneeeeeeeeeeeeeeee avà ! me lo dici dove le prendi ??

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