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le foibe 
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Messaggio le foibe
Nelle foibe ed esattamente in Istria, Friuli Venezia Giulia E Dalmazia dal periodo che va dal 8 settembre 1943 al 1945 furono uccisi dai partigiani titini moltissimi italiani
ma perchè questo?....bisogna andare molto lontano con gli anni...
Dopo la fine della prima guerra mondiale, con la fine dell' impero Austro-Ungarico , e quindi la formazione della Yugoslavia ...
il regno d'italia...e sucessivamente il fascismo attua una politica
di italianizzazione forzata delle "terre divenute italiane"
La lingua ufficiale, anzi, obbligatoria, diventa l'italiano, e dialetti e lingue dei popoli presenti sul territorio sono vietati, proibiti, i cognomi diventano italiani.....si devono dimenticare le origini...
con lo scoppo della 2° guerra mondiale l'italia invade la yugoslavia
conquistando alcune parti...come la slovenia ....diventando provincia di lubiana annessa al regno d'italia.
L'intera Jugoslavia diventa territorio di stragi e di crudeltà nei confronti degli slavi...
solo che dopo l'8 settembre le cose cambiarano
buona parte del regime ando' via da quelle terra...lasciando l'escercito italiano nelle mani dei nazisti....che uccisse i soldati italiani o li mando' in Germania nei campi di concentramento
ci fu putroppo come era prevista una rivolta dei contadini croati, che appogiati dai partigiani titini attacano tutto cio' che italiano
dopo l'8 settembre è partita la La "jugoslavizzazione" del territorio ....uccidendo numerosi italiani


giovedì 14 dicembre 2006, ore 23:43
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A proposito. Avrei parecchio materiale da postare sulle Foibe.

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venerdì 15 dicembre 2006, ore 11:08
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Messaggio Il Partito Comunista Italiano e la "Questione Giuliana
Sin dal giugno 1941 il PCI aveva accettato in linea di principio che le unità partigiane di orientamento comunista, operanti nel settore giuliano, venissero poste sotto il controllo delle strutture partigiane jugoslave; nel marzo del 1943 il distaccamento Garibaldi si era pertanto unito alle formazioni slovene.

In quegli stessi giorni le organizzazioni partigiane italiane non comuniste operanti nella Venezia Giulia venivano invece sempre più evidenziando la loro diffidenza verso i partigiani jugoslavi ed il loro acceso nazionalismo; del resto questi ultimi non si curavano in alcun modo di celare le loro mire annessionistiche, ed anzi nel '43 il Movimento Antifascista di Liberazione Nazionale Jugoslavo proclamava a gran voce il suo buon diritto di annettersi l'Istria, Trieste con tutto il litorale adriatico comprese le città di Fiume e Zara, avendo addirittura la pretesa di richiederne l'avallo dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI).

Del resto il 9 settembre del 1944 l'esponente della resistenza jugoslava Kardelj, in una lettera a Vincenzo Bianco, autorevole membro del PCI, ribadiva che il IX Corpus aveva avuto l'ordine di occupare Trieste, Istria, Gorizia e tutta quella parte del Friuli che avesse potuto raggiungere prima dell'arrivo delle forze Alleate.

Come tutta risposta Bianco il 24 settembre, inviato a Trieste dalla direzione del PCI, diramava alle federazioni comuniste di Trieste e Udine la direttiva di far passare le loro unità partigiane sotto il comando del IX Corpus sloveno.

Il 19 ottobre lo stesso Togliatti, dopo aver incontrato Kardelj, non solo confermava sostanzialmente le direttive di Bianco alle federazioni di Trieste ed Udine, ma le integrava con la raccomandazione di fare in modo, per quanto possibile, che la regione venisse occupata dai partigiani di Tito, piuttosto che dalle truppe anglo-americane. In questa prospettiva il capo del P.C.I. consigliava che le strutture locali del partito collaborassero con gli slavi nell'organizzare un potere popolare nelle zone liberate ed un contropotere in quelle ancora sotto occupazione tedesca.

In questa azione i comunisti italiani non avrebbero dovuto avere remore nell'opporsi a quei loro connazionali che, ispirandosi ad una concezione imperialistica e nazionalistica, alimentassero la discordia con i vicini slavi.

Sulla questione di fondo, la definizione della futura frontiera Italo-Slava, Togliatti non indicava una soluzione, ma solamente il metodo attraverso cui ricercarla e cioè quello di un confronto fra 'democratici' italiani e 'democratici' jugoslavi, ovverossiafra i due PC.

Di fronte alla ferma opposizione che queste proposte incontravano da parte dei rappresentanti degli altri partiti, i comunisti giuliani uscivano definitivamente dal C.L.N. formando un comitato di coordinamento italo-jugoslavo dichiarato esteso a tutte le forze antifasciste giuliane.

Il 17 ottobre dello stesso anno, il P.C.I. giuliano emanava un proclama in cui si annunciava che in breve tempo sarebbero incominciate le operazioni dell'esercito di liberazione jugoslavo per l'espulsione dei tedeschi dall'Italia Nord-Orientale e s'invitava la popolazione ad accogliere i partigiani di Titini non solo come liberatori, bensì "come fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta e della vittoria contro l'occupazione nazista e dei traditori fascisti". Sollecitava altresì tutte quelle unità che si sarebbero venute a trovare ad operare all'interno del campo operativo dei partigiani jugoslavi a porsi disciplinatamente ai loro ordini e per la necessaria unità di comando e per il fatto che quelli erano meglio inquadrati, più esperti e meglio diretti. Concludeva infine impegnando tutti i comunisti ed invitando tutti gli antifascisti a combattere come i peggiori nemici della liberazione dell'Italia tutti coloro che, con il pretesto del 'pericolo slavo' e del 'pericolo comunista', lavoravano per sabotare gli sforzi militari e politici dei seguaci di Tito, impegnati nella lotta di liberazione del loro paese e della stessa Italia, e per opporre gli italiani agli slavi, i comunisti ai non comunisti.

In questo modo si creavano le condizioni affinchè l'operato degli occupanti slavi diventasse totalmente insindacabile, data la facilità di far passare ogni azione difforme alla logica annessionistica slava come imperialista e nazionalista, ponendo così gli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia in completa balia degli slavi.

Di fronte a posizioni così estreme gli esponenti democratici rimasti nel CLN di Trieste, e cioè democratici cristiani, azionisti, socialisti e liberali, stringevano un patto di unità d'azione e redigevano a loro volta un proclama emanato il 9 dicembre e prontamente diffuso dalla stampa e dalla radio italiane.

In tale comunicato veniva riaffermato l'impegno delle forze politiche aderenti al comitato di difendere le frontiere ottenute dall'Italia dopo la prima guerra mondiale, combattuta contro i tradizionali nemici austriaci e tedeschi a fianco di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Si garantiva tra l'altro il rispetto dell'autonomia culturale delle minoranze croate e slovene che sarebbero rimaste incluse in quei confini, si ipotizzava inoltre la creazione a Trieste di un porto franco, alla cui amministrazione avrebbero partecipato tutti i paesi interessati.

Sul finire del '44, nella loro polemica col CLN ed in coerenza con il loro allineamento alla linea di Tito, i comunisti italiani di Trieste partecipavano al costituito comitato civico congiunto sotto la guida di Rudi Ursich, accettando in pratica tutte le rivendicazioni terrritorioli slave. Vista la non disponibilità degli altri componenti del CLN triestino di seguirli su questa strada di completa resa alle pretese slave, i comunisti italiani formavano insieme con i titini, il 13 aprile '45, il Comitato Esecutivo Antifascista Italo Sloveno (CEIAS).

Il 30 aprile a seguito dell'insurrezione italiana contro le truppe degli occupanti tedeschi, comandata dal CLN di Trieste, dopo aspri combattimenti venne liberata quasi tutta la città salvo alcuni caposaldi in cui questi ultimi, trincerati, ancora resistevano.

A questi combattimenti i comunisti, sia italiani che slavi, si guardarono bene di intervenire, salvo espropriare della paternità dell'azione il CLN, quando a tappe forzate giunse il IX Corpus partigiano e la IV armata regolare jugoslava, che nella loro azione precipitosa avevano lasciato in mani tedesche ampie ed importanti zone del loro territorio nazionale come Zagabria e Lubiana, rispettivamente capitali della Croazia e della Slovenia, pur di evitare che a liberare il capoluogo giuliano fosse il CLN od eventualmente le truppe degli alleati anglo-americani.

Ambedue le cose non riuscirono agli slavi perchè il pomeriggio successivo, quando le truppe alleate stavano sul punto d'entrare in Trieste, il controllo della prefettura e del municipio erano ancora saldamente in mano del CLN; purtuttavia la consegna simbolica del passaggio dei poteri, dal CLN alle truppe neozelandesi, non riuscì perchè, per evitare un aperto conflitto armato con i comunisti italo-slavi, i rappresentanti del CLN furono costretti a ritirarsi. Comunque la resa delle residue truppe tedesche ancora asseragliate nella città avvenne nelle mani delle forze Alleate e non in quelle slave come volevano i titini.

Incominciava così il periodo di martirio per la città giuliana sottoposta alla feroce repressione degli occupanti slavo-comunisti a cui i neozelandesi assistettero senza intervenire.

La prima azione dei "liberatori" fu di disarmare i partigiani italiani del CLN, la Guardia Civica, il Corpo dei Volontari della Libertà, qualunque forza armata cioè che potesse intralciare in qualche modo la loro volontà annessionistica. L'unica formazione politica italiana che fu lasciata libera di agire fu il PCI giuliano; tutte le bandiere italiane furono fatte ammainare, quelle che la gente esponeneva sui balconi furono fatte ritirare a colpi di mitra; la stampa libera fu soppressa, le uniche pubblicazioni furono 'Il Lavoratore' e 'Primorski Dnevnik', rispettivamente espressione del PCI giuliano e degli occupanti slavi.

Nel frattempo l'OZNA, la famigerata polizia politica slava, agiva silenziosamente facendo sparire i maggiori esponenti del CLN e degli Autonomisti, mentre il CEIAS a cui aderiva il PC giuliano dava vita ad un Consiglio di Liberazione di Trieste, al quale il generale Kveder consegnava l'amministrazione della città pronunciando un discorso in cui si diceva che ben presto Trieste sarebbe entrata a far parte della repubblica federale Jugoslava con uno statuto autonomo.

Il 5 maggio una manifestazione spontanea di migliaia di Triestini che si erano radunati in corteo dietro una bandiera italiana fu sciolta a raffiche di mitra sparate ad altezza d'uomo con la conseguente uccisione di 5 persone tra cui un'anziana donna di 69 anni ed un giovane ragazzo, che nel corso della sua breve vita aveva già avuto modo di sperimentare la "liberazione" titina essendo un esule di Fiume.

Il 6 giugno tutti i triestini ricevettero l'ordine di presentare le loro carte di identità per farvi imprimere il simbolo della loro nuova "libertà", la stella rossa. Contemporaneamente l'ufficio competente provvedeva a ritirare i documenti agli elementi da loro ritenuti sospetti ed a rilasciare alle torme di slavi, recentemente calati in città, documenti attestanti il fatto che vi risiedevano da sempre.

Dalla foiba di Basovizza si andavano intanto recuperando, tra il raccapriccio generale, le povere salme degli "epurati", piccolo segno della normalizzazione slava, e veniva acquistando triste fama la villa Segrè Sartori, in cui una famigerata squadra volante della 'Guardia del Popolo' andava perpetrando ogni sorta di torture sugli sventurati che tentavano loro di opporsi (tra cui non mancarano comunisti italiani dissidenti).

Del resto il XIII Corpo Alleato aveva informato il Comando Supremo del Mediterraneo che in base all'indagine effettuata almeno 1.480 persone erano state deportate dalla Zona A e di altre 1.500 mancava ogni notizia, il rapporto continuava affermando che tra il 1^ maggio ed il 12 giugno nella sola provincia di Trieste erano state uccise 3.000 persone. L'esponente americano Grew, in una sua relazione a Trumam, paragonava l'occupazione slava della Venezia Giulia a quella praticata dai giapponesi in Manciuria o da Hitler negli anni 1938-39.

Per chiarire ulteriormente la posizione e le responsabilità politiche avute dal PCI italiano nell'evolversi della situazionedei Giuliano-Dalmati basta rifarsi alla lettera che Togliatti inviò nel '45 all'allora Presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi.
In questa missiva, consultabile nell'Archivio Centrale dello Stato a Roma, Togliatti arrivò a minacciare una guerra civile se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia-Giulia, evitando in tal modo l'occupazione e l'annessione de facto alla Jugoslavia.

A patire le conseguenze di questa presa di posizione furono le popolazioni dell'Istria e della Dalmazia, che in balia dei titini subirono una metodica opera di terrorismo, che indusse la maggioranza della popolazione ad abbandonare compatta le proprie case per cercare un rifugio nella disastrata Italia post-bellica, cosa che non era avvenuta nei precedenti rivolgimenti politici subiti dalla nostra regione di frontiera nè con i francesi di Napoleone e neppure sotto il dominio austriaco quando, seppure governati da un regime reazionario, gli istriano-dalmati erano stati comunque lasciati liberi di rimanere se stessi, cioè italiani.

Il comportamento operato nella Venezia-Giulia dai titini, a cui il PCI si prestò passivamente e non, fu una vera e propria "pulizia etnica" tipo quella praticata dalle varie fazioni ferocemente in lotta tra loro in quella che fu la Federazione jugoslava.

Per inquadrare l'entità del genocidio e del conseguente esodo basti dire che i morti giuliani-dalmati durante la guerra, furuno nettamente superiori alla media nazionale, a cui bisogna però aggiungere le uccisioni e gli infoibamenti che sono continuati ben oltre il termine della guerra, e che portarono le foibe a riempirsi di 12.000 persone, dati ufficiali I.R.O. (International Refugèe Organisation), e la regione a svuotarsi di circa 350.000 dei suoi originari abitanti, a testimonianza di un referendum popolare patito sulla propria carne in mancanza di quello che civilmente si reclamava per stabilire il destino della regione e dei suoi abitanti.

A completare il quadro non può essere taciuto il comitato di accoglienza che queste popolazioni così ampiamente tribolate hanno ricevuto dai comunisti italiani al loro arrivo nella loro madre patria: insulti, fischi e sputi a Venezia e Bari quando le navi cariche di profughi attraccarono al porto; minacce di sciopero a Bologna per evitare che un treno di profughi avesse modo di rifocillarsi al posto di ristoro organizzato dalla Pontificia Opera di Assistenza; la costante azione di diffamazione operata nell'indicare al pubblico ludibrio come ricchi borghesi "fascisti" che fuggivano dalle "magnifiche sorti e progressive" del comunismo di Tito.

Occorre inoltre dire della costante azione di travisamento dei fatti, di misconoscimento dell'immane tragedia operata da parte di una intellighenzia di sinistra, lungamente predominante nella scena politica-culturale italiana, che bovinamente ha voluto interpretare l'esodo soltanto con gli occhi dell'ideologia e non con quelli di un popolo travagliato, con la conseguente liquidazione degli eventi giuliano-dalmati nei libri di storia con un semplice trafiletto limitato al solo "problema di Trieste", come se noi istriano-dalmati fossimo dei marziani.

Il misconoscimento e l'oblio storico è riuscito così bene che la stragrande maggioranza dei giovani italiani mentre sa quasi tutto sui 'desaparecidos' argentini e cileni, non sa quasi nulla dei fatti istriani e dalmati, e quando dico di essere nato in Istria mi sento rispondere: "Ah, allora sei slavo!".

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venerdì 15 dicembre 2006, ore 11:09
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Messaggio L'inizio e la fine della Fiume italiana
Alla mattina del 30 marzo il contingente della Wehrmacht abbandonava la citta'. I banditi di Tito erano ormai alle porte...gli aerei inglesi vennero a bombardare Abbazia colpendo in pieno l'Hotel "Belvedere" adibito allora a Ospedale Militare... A Fiume e dintorni non c'era piu granche' da distruggere: cimitero, scuole, e fabbriche del capoluogo erano solo un gran cumulo di macerie. Le banchine e le dighe del Porto stavano per diventarlo anch'esse da un momento all'altro, grazie alle mine che i tedeschi avevano appena innescato. Per Fiume italiana, quella prima meta' d'aprile fu l'inizio della fine...

Al generale Peter Drapsin che comandava la "4. armata" partigiana Tito aveva dato precise direttive: "liberare l'Istria e il "litorale sloveno" (sic), occupare Pola, Trieste, Monfalcone, Gorizia...occupare Fiume e le isole del Quarnero"...Tra Fiume e Trieste si dovette combattere fino all'ultimo per non cadere in mano ai partigiani. Il generale Drapsin evito' di impantanarsi a Fiume e corse avanti verso l'Isonzo. Il 1.maggio gli jugoslavi entrarono a Trieste ma a Fiume si combatteva ancora. Avevano preso Sussak fin dal 21 aprile e la loro retroguardia si stava dannando l'anima lungo il rigagnolo dell' Eneo che separava geograficamente Sussak da Fiume con una decina di metri d'acqua e con un abisso storico di radicata diversita' culturale scavato da secoli di distinzione tra Fiumani e croati..

Non li fermo' la storia ne tantomeno l'Eneo, ma le granate che piovvero su di loro dalla postazione di artiglieria tedesca sul colle di Tersatto e dagli obici italiani della "37. ma Batteria Julia" disposti sul Monte Lesco, sul colle di Santa Caterina e sul Monte Croce. Saltato in aria il ponte sull'Eneo, venne bloccata ogni via camionabile dal nord verso Fiume. Provarono ogni altra via possibile per aggirare o eliminare l'ostacolo costituito da un pugno di alpini italiani che manovravano i cannoni come se facessero il tiro al piattello con un fucile da caccia. Scesero con le loro autocolonne da Jelenje verso Drenova ma decine di granate distrussero la testa dei convogli e li misero nell'impossibilita' di proseguire. Un attacco di mezzi corrazzati verso Sarsoni, San Matteo, Mattuglie, per arrivare al mare dalla parte opposta eliminando le difese costiere ed isolare la citta' accerchiandola, causo' loro altre perdite. Un altro tentativo con fanteria e carriaggi al seguito lo fecero dalla Val Draga ma una valanga di proiettili al fosforo brucio uomini e cavalli...Alla fine decisero di partire all'assalto con una locomotiva munita di pianali per reggere il peso di alcuni cannoni, sperando di distruggere a distanza ravvicinata quelle micidiali batterie... La locomotiva centrata in pieno fini giu' dalla scarpata.

Gli italiani che resistettero in quei bunker non facevano parte delle forze armate della RSI ma con il nome della "37. ma Batteria Julia" formavano un gruppo d'artiglieria aggregato alla Wehrmacht con tanto di guidone tricolore, guidato da un uomo che per la sua diabolica capacita di dirigerne il fuoco veniva chiamato dai tedeschi "piccolo figlio del diavolo". Aveva il compito di incrociarei propri tiri con quelli delle batterie tedesche che sparavano dal colle di Tersatto, sopra Sussak. I banditi partigiani conquistarono per prima, e solo a prezzo di perdite ingenti la postazione di Tersatto quando riuscirono a isolarla completamente . Il maggiore Lenard che la comandava, vedendosi circondato senza alcuna possibilita' di scampo, chiamo con la radio da campo il comando della batteria italiana sul Monte Lesco. Il giovanissimo Tenente Franco Geja che gli rispose, ricevette un ordine che non ammetteva repliche: "Sparami adosso, piccolo figlio del diavolo, fa presto e ... buona fortuna!..." Geja obbedi' con le lacrime agli occhi e tanta rabbia in corpo. Le granate italiane distrussero tutto seppellendo insieme tedeschi e partigiani. Pochi i superstiti, e i vincitori, comunque, non fecero prigionieri.

Dal 26 aprile Fiume fu senza elettricita' e senza acqua. Trovare il cibo era difficile e ad uscire di casa in cerca di un pezzo di pane c'era da rischiare la vita.

Nulla poteva piu fermare i banditi partigiani agli ordini di Drapsin lanciati verso l'Isonzo. Il 28 aprile occuparono Villa del Nevoso e i cannoni della "Julia" non spararono piu. Il "piccolo figlio del diavolo" si salvo' e pote raccontare com'era andata. Intanto i banditi partigiani sbarcarono a Laurana e la Compagnia "D'Annunzio" della X.MAS si sacrifico' quasi tutta nel disperato tentativo di bloccarli. Fascisti fiumani caddero con le armi in pugno fino al 2 maggio, quando in Italia tutti si erano gia calati i calzoni di fronte ai vincitori. Il Tenente Francesco Vigjack e i suoi 33 maro, superstiti della Compagnia "D'Annunzio", dopo aver combattuto con i partigiani sulla costa che stavano sbarcando a frotte, esaurirono le loro munizioni a Marcossine il 30 aprile. Li presero con le armi scariche e li fecero sparire quasi tutti nel nulla. Il 2 maggio gli ultimi reparti italo - tedeschi combattevano disperatamente in quel di Mattuglie per salvare Fiume dalla barbarie partigiana.

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Messaggio Le Foibe e i processi che non ci furono
Ecco le ragioni per cui non è esistita una Norimberga anche per i crimini titini

Una domanda che è lecito porsi è perché nessun procedimento giudiziario sia stato intrapreso negli anni immediatamente successivi agli avvenimenti stessi, come invece avvenne per i crimini di guerra commessi dalle truppe tedesche del Terzo Reich in Italia e negli altri Paesi dell’Europa occupata.

Domanda alla quale vengono date riposte diverse. In primo luogo occorre osservare che la Jugoslavia di Tito era tra i Paesi vincitori al tavolo della pace, protetta dall’Urss prima e dagli alleati occidentali dopo il 1948. Controllava militarmente e politicamente con un pugno di ferro i territori dove la maggior parte di questi eventi si erano verificati. Quindi ogni possibilità di ricerca sul campo di prove materiali o documentali era preclusa. E tale rimase per decenni fino al 1991, cioè al crollo del regime comunista jugoslavo.

I territori considerati inoltre avevano subito un’autentica pulizia etnica, essendo stati svuotati in gran parte della loro popolazione, le città quasi interamente. Se si considera che le cinque province contavano circa un milione di abitanti nel 1940; che i territori rimasti all’Italia dopo il 1954 (la stretta striscia triestina fino a Muggia e il Basso Isontino) ne avevano circa 300.000 e i profughi furono intorno ai 350.000; tolti gli sloveni e i croati delle Giulie e degli altipiani interni e i circa 60/70.000 italiani «rimasti» sul territorio ceduto, si ha un’idea concreta dello spopolamento subito dalle città costiere e dalla penisola istriana .

Mancava quindi un habitat umano e sociale capace di chiedere giustizia per le violenze e le stragi subite. . L’esodo aveva lasciato anche gli italiani che restavano senza un retroterra umano che li proteggesse. Essi si sentivano in balìa dei nuovi padroni .

Ma i profughi in Italia perché non reagivano? Perché non adivano le Procure e i Tribunali per chiedere giustizia? Domanda questa ancora più impietosa dell’altra. Come stavano i profughi nell’amata «madrepatria»? Come erano stati accolti? Molti ebbero esperienze positive. Ma in altri casi non fu così. . Ad Ancona e a Venezia manifestazioni ostili di militanti di sinistra. I profughi scendevano sulla banchina a baciare la terra italiana. E ricevevano fischi e sputi e insulti e inviti a tornare da dove venivano. A Bologna chiusero i lucchetti dei vagoni-merci dove stava transitando un carico di profughi negando loro per ore acqua, cibo e latrine, finché la pietà del capostazione non li fece partire . A spiegare la nomea di «fascisti» che veniva propagandata, determinando siffatte accoglienze organizzate, può aver contribuito la circostanza che i primi flussi di profughi avvennero già nell'inverno 1943-1944, a seguito dei primi eccidi di civili italiani in Istria e in Dalmazia e dei pesanti bombardamenti alleati su Zara. La città fu quasi distrutta in 54 incursioni .

Avvenne così che le prime notizie sui massacri e l’esodo apparvero sul Corriere della Sera e sugli altri giornali italiani pubblicati sotto la Rsi. Quindi non potevano essere, questi profughi, che «tutti fascisti»! E questa etichetta rimase sulla schiena di tutti loro, come un marchio di infamia per la sinistra italiana del dopoguerra . Fu così che si cominciò a non capire. E si continuò per decenni, almeno in una parte della cultura politica italiana. Fino a pochi anni fa.

Alloggiati in caserme diroccate o disastrate da precedenti usi o in ex-campi di concentramento, i profughi erano spesso oggetto di aggressioni e pestaggi da parte di commandos di attivisti e in alcuni casi di assalti ai campi-profughi (La Spezia, Mantova, Padova, ecc.). Tanto che si recavano al lavoro o alle mense della Poa (Pontificia Opera di Assistenza) in gruppi per non essere sorpresi isolati; la notte si autoimponevano il coprifuoco e si era arrivati a dover costituire delle squadre, più o meno armate, che si davano il turno nello scortare i ragazzi a scuola e i camion che portavano vettovaglie ai campi. A volte erano le stesse autorità a fornire ai profughi per vie traverse armi per l’autodifesa. Era questa l’Italia tra il 1945 e il 1950. .

Un’altra osservazione va fatta. Le vecchie classi dirigenti giuliane, sia chi aveva collaborato nel Ventennio sia chi si era ritirato o aveva subito persecuzioni dal regime fascista, erano state già indebolite dalle deportazioni tedesche e furono falcidiate dalle repressioni iugoslave. L’effetto voluto degli eccidi comunisti era proprio questo: privare la popolazione italiana autoctona dei suoi dirigenti, dai più autorevoli ai più umili, fino ai parroci. In quattro anni furono uccisi trentanove sacerdoti . Non si rinvennero estremi di reato? Non fu possibile raccogliere prove? È un campo aperto all’indagine, un’indagine approfondita che ancora non è stata fatta.

Nella pubblicistica più recente viene dato risalto a motivazioni di ordine politico generale, sia interno che internazionale. Sul fronte interno bisognava fare i conti con le soppressioni di migliaia di fascisti «repubblichini» e di altri cittadini da parte di alcune formazioni partigiane alla fine delle ostilità, senza valide giustificazioni militari. Sopraggiunse la nota amnistia voluta dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, che pose termine o comunque vanificò centinaia di processi in corso. . Sul piano internazionale l’apertura di indagini sui crimini commessi contro gli italiani dai partigiani jugoslavi avrebbe destabilizzato l'equilibrio politico appeso ad un sottile filo che passava attraverso il distacco della jugoslavia dall'URSS; la maledetta "ragion di stato".

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Messaggio Come i nostri ragazzi, pagarono per le Terre Irredenti.
Giuseppe Spano aveva 24 anni e molta fame. In poco più di un mese aveva perso oltre 20 chili ed era diventato pelle e ossa. Quel 14 giugno 1945 non resistette e rubò un po' di burro. Fu fucilato al petto per furto.
Ferdinando Riechetti aveva 25 anni ed era pallido, emaciato. Il 15 giugno 1945 si avvicinò al reticolato per raccogliere qualche ciuffo d'erba da inghiottire. Fu fucilato al petto per tentata fuga.
Pietro Fazzeri aveva 22 anni e la sua fame era pari a quella di centinaia di altri compagni. Ma aveva paura di rubare e terrore di avvicinarsi al reticolato. II 1° luglio 1945 morì per deperimento organico.
In quale campo della morte sono state scritte queste storie? A Dachau, a Buchenvald oppure a Treblinka? No, questo è uno dei lager di Tito!
Borovnica, Skofja Loka, Osseh. E ancora Stara Gradiska, Siska, e poi Goli Otok, I'Isola Calva.
Pochi conoscono il significato di questi nomi. Dachau e Buchenvald sono certamente più noti, eppure sono la stessa cosa. Solo che i primi erano in Jugoslavia e gli internati erano migliaia di italiani. deportati dalla Venezia Giulia alla fine del secondo conflitto mondiale e negli anni successivi, a guerra finita, durante I'occupazione titina.

I DEPORTATI DIMENTICATI IN NOME DELLA POLITICA ATLANTICA.
Una verità negata sempre, per ovvi motivi, dal regime di Belgrado, ma inspiegabilmente tenuta nascosta negli archivi del nostro ministero della Difesa. Oggi il Borghese è entrato in possesso dei documenti segreti che, oltre a fornire l'ennesima prova dell'Olocausto italiano sui confini orientali, sono un terribile atto di accusa non solo nei confronti di Tito, ma soprattutto verso tutti i governi che si sono succeduti dal 1945 in poi. Partendo da quello di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, per finire con gli ultimi di Silvio Berlusconi., Lamberto Dini e Romano Prodi. Perchè nessuno ha parlato? Perché nessuno ha tolto il segreto ai documenti che provano (con tanto di fotografie) il massacro e le torture di migliaia di italiani? Semplice: la verità è stata sacrificata alla ragion di Stato.
Belgrado, nell'immediato dopoguerra, si avvia sulla strada dello strappo con Mosca ed il nascente blocco occidentale vuole a ogni costo che quel divorzio si consumi. Ma il costo l'ha pagato solo il nostro Paese il cui governo, per codardia, accetta supinamente di sacrificare sull'altare della politica atlantica migliaia di giuliani, istriani, fiumani, dalmati. Colpevoli solo di essere italiani.
"Condizioni degli internati italiani in Jugoslavia con particolare riferimento al campo di Borovnica e all'ospedale di Skofjia Loka ambedue denominati “della morte" titola il rapporto del 5 ottobre 1945, con sovrastampato "Segreto", dei Servizi speciali del ministero della Marina. Il documento, composto di una cinquantina di pagine, contiene le inedite testimonianze e le agghiaccianti fotografie dei sopravvissuti, accompagnate da referti medici e dichiarazioni dell'Ospedale della Croce Rossa di Udine, in cui questi ultimi erano stati ricoverati dopo la liberazione, e da un elenco di prigionieri deceduti a Borovnica. Il colonnello medico Manlio Cace, che in quel periodo ha collaborato con la Marina nel redigere la relazione che, se non è stata distrutta, è ancora gelosamente custodita negli archivi del ministero della Difesa, lasciò fotografie e copia del documento al figlio Guido, il quale lo ha consegnato alle redazioni del Borghese e di Storia Illustrata.
MANCA IL CIBO MA ABBONDANO LE FRUSTATE.
"Le condizioni fisiche degli ex internati", premette il rapporto, "costituiscono una prova evidente delle condizioni di vita nel campi Jugoslavi ove sono ancora rinchiusi numerosi italiani, molti dei quali possono rimproverarsi solamente di aver militato nelle fila dei partigiani di Tito in fraterna collaborazione con i loro odierni aguzzini..."
Ai primi di maggio del '45, dopo la capitolazione tedesca, i partigiani di Tito controllano l'intera Istria, giungendo a Trieste e Gorizia prima degli anglo-americani. Sono i giorni del terrore, del calvario delle foibe, ma anche dell'altra terribile faccia della "pulizia etnica": le deportazioni. Sono migliaia gli italiani internati nei lager jugoslavi e poche centinaia faranno ritorno a casa, dopo aver subito terribili sofferenze.
"Il vitto era pessimo e insufficiente", racconta nel rapporto il carabiniere Damiano Scocca, 24 anni, preso dai titini il 1° marzo 1945 nella caserma del Cln di Trieste, "e consisteva in due pasti giornalieri composti da due mestoli di acqua calda con poca verdura secca bollita... A Borovnica non si faceva economia di bastonate; durante il lavoro sul ponte ferroviario nelle vicinanze del campo chi non aveva la forza di continuare a lavorare vi veniva costretto con frustate ... ". " ... Durante tali lavori", afferma il finanziere Roberto Gribaldo, in servizio alla Legione di Trieste e "prelevato" il 2 maggio, "capitava sovente che qualche compagno in seguito alla grande debolezza cadesse a terra e allora si vedevano scene che ci facevano piangere. Il guardiano, invece di permettere al compagno caduto di riposarsi, gli somministrava ancora delle bastonate e tante volte di ritorno al campo gli faceva anche saltare quella specie di rancio".
Le mire di Tito sul finire del conflitto sono molto chiare: ripulire le zone conquistate dalla presenza italiana e costituire la settima repubblica jugoslava annettendosi la Venezia Giulia e il Friuli orientale fino al fiume Tagliamento.
Antonio Garbin, classe 1918, è soldato di sanità a Skilokastro, in Grecia. L'8 settembre 1943 viene internato dal tedeschi e attende la "liberazione" da parte delle truppe jugoslave a Velika Gorica. Ma si accorge presto d essere nuovamente prigioniero. "Eravamo circa in 250. Incolonnati e scortati da sentinelle armate che ci portarono a Lubiana dove, dicevano, una Commissione apposita avrebbe provveduto per il rimpatrio a mezzo ferrovia. Giunti a Lubiana ci avvertirono che la commissione si era spostata ... ". I prigionieri inseguirono la fantomatica commissione marciando di città in città fino a Belgrado.
PRIGIONIERI UCCISI PERCHE' INCAPACI DI RIALZARSI.
"In 20 giorni circa avevamo coperto una distanza di circa 500 chilometri, sempre a piedi", racconta ancora Garbin ai Servizi speciali della Marina italiana. "La marcia fu dura, estenuante e per molti mortale. Durante tutto il periodo non ci fu mai distribuita alcuna razione di viveri. Ciascuno doveva provvedere per conto proprio, chiedendo un pezzo di pane al contadini che si incontravano... Durante la marcia vidi personalmente uccidere tre prigionieri italiani, svenuti e incapaci di rialzarsi. I morti, però, sono stati molti di più... Ci internarono nel campo di concentramento di Osseh (vicino Belgrado, ndr), avevamo già raggiunto la cifra di 5 mila fra italiani, circa un migliaio, tedeschi, polacchi, croati ... ".
Chi appoggia Tito nel perseguire il suo obiettivo di egemonia sulla Venezia Giulia?
L'allora leader del P.C.I. Palmiro Togliatti che, il 30 aprile 1945, quando i partigiani titini sono alle porte di Trieste, firma un manifesto fatto affiggere nel capoluogo giuliano:
"Lavoratori di Trieste, il nostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con loro nel modo più assoluto"
A confermare che la pulizia etnica è continuata anche a guerra finita sono le affermazioni di Milovan Gilas, segretario della Lega comunista jugoslava, che, in un intervista di sei anni fa a un settimanale italiano, ammette senza giri di parole: "nel 1946 io ed Edvard Kardelj andammo in Istria ad organizzare la propaganda anti-italiana... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Massacri di civili, violenze, torture, affogamenti di massa, mutilazioni... Così fu fatto"
SKOFJA LOKA, L'OSPEDALE CHIAMATO "CIMITERO".
E nei campi di concentramento finiscono anche i civili, come Giacomo Ungaro, prelevato dai titini a Trieste il 10 maggio 1945 "Un certo Raso che attualmente trovasi al campo di Borovnica", è la dichiarazione di Ungaro, "per aver mandato fuori un biglietto è stato torturato per un'intera nottata., è stato poi costretto a leccare il sangue che perdeva dalla bocca e dal naso; gli hanno bruciacchiato il viso e il petto così che aveva tutto il corpo bluastro. Sigari accesi ci venivano messi in bocca e ci costringevano ad ingoiarli".
I deperimenti organici, la dissenteria. le infezioni diventano presto compagni inseparabili dei prigionieri. "Fui trasferito all'ospedale di Skofja Loka. Ero in gravissime condizioni", è il lucido resoconto del soldato di sanità Alberto Guarnaschelli, "ma dovetti fare egualmente a piedi i tre chilometri che separano la stazione ferroviaria dalI'ospedale. ...Eravamo 150, ammassati uno accanto all'altro, senza pagliericcio, senza coperte. Nella stanza ve ne potevano stare, con una certa comodità, 60 o 70.Dalla stanza non si poteva uscire neppure per fare i bisogni corporali. A tale scopo vi era un recipiente di cui tutti si dovevano servire. Eravamo affetti da diarrea, con porte e finestre chiuse. Ogni notte ne morivano due, tre, quattro. Ricordo che nella mia stanza in tre giorni ne morirono 25. Morivano e nessuno se ne accorgeva ... "."Non dimenticherò mai i maltrattamenti subiti", è la testimonianza del soldato Giuseppe Fino, 31 anni, deportato a Borovnica ai primi di giugno 1945, "le scudisciate attraverso le costole perchè sfinito dalla debolezza non ce la facevo a lavorare. Ricorderò sempre con orrore le punizioni al palo e le grida di quei poveri disgraziati che dovevano stare un'ora anche due legati sospesi da terra; ricorderò sempre con raccapriccio le fucilazioni di molti prigionieri, per mancanze da nulla, fatte la mattina davanti a tutti..."."Le fucilazioni avvenivano anche per motivi futili ...", scrive il rapporto segreto riportando il racconto dei soldati Giancarlo Bozzarini ed Enrico Radrizzali, entrambi catturati a Trieste il 1° maggio 1945 e poi internati a Borovnica.
PER ORE LEGATI A UN PALO CON IL FILO DI FERRO.
"La tortura al palo consisteva nell'essere legato con filo di ferro ad ambedue le braccia dietro la schiena e restare sospeso a un'altezza di 50 cm da terra, per delle ore. Un genovese per fame rubò del cibo a un compagno, fu legato al palo per più di tre ore. Levato da quella posizione non fu più in grado di muovere le braccia giacchè, oltre ad avere le braccia nere come il carbone, il filo di ferro di ferro era entrato nelle carni fino all'osso causandogli un'infezione. Senza cura per tre giorni le carni cominciarono a dar segni di evidente infezione e fuoriuscita di essudato sieroso purulento, quindi putrefazione. Fu portato a una specie di ospedale e precisamente a Skofja Loka. Ma ormai non c'era più niente da fare, nel braccio destro già pullulavano i vermi... AI campo questo ospedale veniva denominato il Cimitero…."Nel lager di Borovnica furono internati circa 3 mila italiani, meno di mille faranno ritorno a casa. A questi ultimi i soldati di Tito imposero di firmare una dichiarazione attestante il "buon trattamento" ricevuto. "I prigionieri (liberati, ndr) venivano diffidati a non parlare", racconta ancora Giacomo Ungaro, liberato nell'agosto 1945, "e a non denunziare le guardie agli Alleati perchè in tal caso quelli che rimanevano al campo avrebbero scontato per gli altri".
TORTURE NEI LAGER DI TITO.
Per conoscere gli orrori di un campo di concentramento titino è opportuno riassumere i vari tipi di punizione, come emergono dai racconti dei sopravvissuti.
La prima è la fucilazione decretata per la tentata fuga o per altri fatti ritenuti gravi da chi comanda il campo, il quale commina pena sommarie. Spesso il solo avvicinarsi al reticolato viene considerato un tentativo d’evasione. L’esecuzione avviene al mattino, di fronte a tutti gli internati.
C’è poi il "palo" che è un’asta verticale con una sbarra fissata in croce: ai prigionieri vengono legate le braccia con un fil di ferro alla sbarra in modo da non toccare terra con i piedi. Perdono così l’uso degli arti superiori per un lungo tempo se la punizione non dura troppo a lungo. Altrimenti per sempre.
Altra pena è il "triangolo" che consiste in tre legni legati assieme al suolo a formare la figura geometrica al centro della quale il prigioniero è obbligato a stare ritto sull’attenti pungolato dalle guardie finchè non sviene per lo sfinimento.
Infine, c’è la "fossa", una punizione forse meno violenta ma sempre terribile, che consiste in una stretta buca scavata nel terreno dell’esatta misura di un uomo. Il condannato, che vi deve rimanere per almeno mezza giornata, non ha la possibilità nè di piegarsi nè di fare alcun movimento.
QUESTO ERA IL TRATTAMENTO CHE I PACIFICI COMUNISTI RISERVAVANO AI PRIGIONIERI NEI LORO LAGER.
Queste persone, questi martiri, non hanno avuto (stranamente) una Anna Frank o un Primo Levi che li ricordasse, che testimoniasse l'orrore dei campi di concentramento comunisti. Alle vittime dei Nazisti non manca un solo quartiere che non abbia una strada a loro dedicata. Le vittime dei regimi Comunisti passano da sempre inosservate... E già, Anna Frank e Primo Levi erano ebrei, quindi le vittime delle guerre sono sempre e unicamente loro: gli ebrei. Oggi c'è di peggio ma si continua a guardare al passato!
Popolazioni di civili, sottolineo di civili, ammazzati dalla pulizia etnica comunista! Queste immagini sono attuali! Non sono lo spezzone bianco e nero dei documentari girati nel '45 in Polonia e nei vari campi di prigionia tedeschi!
Come si può pensare solo lontanamente che si faccia Giustizia nei Balcani quando non è stata resa Giustizia alle Vittime delle Foibe?
PENSIAMO SOLO E UNICAMENTE AD AUSCHWITZ COME UNICO MASSACRO DELLA STORIA?
Il costante dominio dei Mass-Media, il controllo Totale dell'informazione e della "formazione dell'ESSERE" tramite libri di testo, perpetrata da Ebrei e Comunisti ai danni di individui inconsapevoli, fa si che tutto quello che non è conforme al loro insegnamento diabolico risulti nullo e invisibile all'occhio umano![/img]

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Messaggio Istria, Fiume e Dalmazia: controinformazione.
4 NOVEMBRE 1918:
Il convegno-incontro del 4 Novembre 2005, organizzato dal Forum Istria Fiume Dalmazia nella sala Liberty del Circolo Filologico Milanese, ha voluto ricordare la Vittoria del 1918 accostandola alla tragedia giuliano dalmata. Legame forzato solo in apparenza, dice nella sua introduzione Rinaldo Jurcovich, presidente del Forum IFD, perché la vittoria mutilata si pone al centro della fase storica dei nazionalismi esasperati, durante la quale si svilupparono le condizioni che condussero al dramma finale degli italiani dei confini orientali: le uccisioni indiscriminate dell’autunno 1943 e della primavera-estate1945, culminate con le tristemente note foibe, e l'espulsione, ovvero pulizia etnica, che "bonificò" i territori "liberandoli" dalle maggioranze italiane per consegnarli definitivamente e senza future contestazioni, ai due neo stati balcanici, Slovenia e Croazia che mai le avevano possedute e dove, queste nazionalità non erano mai state maggioritarie. L'incontro del 4 Novembre ha voluto tratteggiare il percorso nelle sua complessa e cruda essenzialità, per ridare la Patria morale e culturale, sia pure solo sul piano della verità storica, a chi materialmente l'ha perduta.Il Padre delle genti adriatiche, Nicolò Tommaseo è stato ricordato da Sereno Detoni, presidente del Centro Studi e Ricerche Niccolò Tommaseo di Trieste, non solo per le sue opere, 223 volumi, 162 scritti, Il Dizionario della Lingua italiana ed il Dizionario dei Sinonimi, opere che hanno contribuito ampiamente alla cultura italiana, ma anche per la visione politica, dalla difesa della Repubblica di Venezia con Daniele Manin, 1848-49, dall’austriaco invasore, alla sua scelta federalista contro lo strapotere centralista dei Savoia assertori di una politica mutuata dal neo centralismo francese di Napoleonica impronta dello stato, nella visione federalista dell’Italia di cui la repubblica Veneta avrebbe dovuto far parte. Dunque una fede nei destini della Patria e della sua Dalmazia dominati dall’inquietudine per le sorti della stessa tali da fargli rifiutare la nomina di senatore del Regno.

In ordine alla visione dello strapotere centralista dei Savoia, dice il prof. Giulio Vignoli, ci sarebbe molto da dire poichè, nell'epoca considerata non esisteva altra visione dello stato, e così era in tutta Europa. Ciò non significava essere la monarchia Sabauda assoluta visto che c'era un governo democratico con Cavour, D'Azeglio, etc. Erano i tempi che lo imponevano. E' d'altronde vero che fu l'esercito piemontese che fece da filo di ferro per unire i pezzi d'Italia. La prima alleanza federalista nel 1848 nella I Guerra d'Indipendanza fallì e i Borboni, il Papa e gli Austria-Este ritirarono i loro eserciti e la costituzione da loro giurata.

I sentimenti anti-italiani della duplice monarchia Asburgica, dopo il 1866, anno che la vide costretta a perdere il Lombardo-veneto con il trattato di Pace di Vienna, si accentuano e, al posto di una politica larga di comprensione ed autonomia verso le varie componenti nazionali, subentra il timore almeno nei confronti degli italiani irredenti, ritenuti popolazione infida che guarda ai fasti della Serenissima, significativi per tutti i veneti, come espressioni della Madre Italia. Dunque, tali popolazioni anche se più colte e preparate nella costruzione di una società civile, spesso all’avanguardia in Istria e Dalmazia, di cui fu un splendido esempio il mirabile podestà di Spalato, il Bajamonti, la cui amministrazione italiana della città cadde nel 1882, fu preferito e favorito in tutti i modi l’elemento slavo, che secondo il prof. Giulio Vignoli, dava maggiori garanzie di fedeltà agli Asburgo-Lorena. L’acquisizione del Veneto al Regno d’Italia, determinò verso gli austriaci di nazionalità italiana e verso i “regnicoli”, residenti italiani nella regione Giulia e Dalmazia, ai quali non veniva per timore mai concessa la cittadinanza anche dopo generazioni, una politica sempre più ostile, con la chiusura di alcune scuole italiane e l’allargamento delle circoscrizioni elettorali in Dalmazia, dove le amministrazioni erano italiane, per cambiare il risultato delle elezioni amministrative e potesse prevalere l’elemento slavo. Arriviamo alla prima guerra mondiale dopo Sarajevo. La Grande Guerra si chiude con la vittoria, definita mutilata per la mancata annessione della Dalmazia o, almeno, le città italiane della costa, all’Italia. Solo l’enclave di Zara viene inclusa nel Regno. Ed una politica ostile e persecutoria verso gli italiani genera il primo esodo degli italiani di Dalmazia. E così la popolazione italiana, un tempo prevalente nelle città della costa dalmata, diventa minoritaria. Salvo ZARA, l’elemento italiano viene espulso dalla Dalmazia.

A Fiume viene invece attuata l’impresa voluta dal poeta-soldato Gabriele D’annunzio, che getterà le basi per l’affermazione dell’Italianità della Città passata definitivamente all’Italia solo nel 1924.

Certi pseudo storici di formazione e cultura comunista, come Gianni Oliva, hanno diffuso verità fasulle sul trattamento riservato alle popolazioni slave di Trieste e dell’Istria dopo la Vittoria del 1918. Ad esempio, dice Giorgio Rustia,presidente dell'associazione Deportati ed Infoibati, la persecuzione italiana del clero slavo non è mai esistita. In particolare, ancora sotto l’Austria era esattamente vero il contrario, poiché la diocesi di Trieste e Capodistria, abitate dal 94 al 95 % da italiani, si dovettero subire spesso la messa in slavo perché il vescovo era alternativamente o slavo, o croato, o tal volta anche tedesco e la popolazione, che girava al largo perché non amava la messa in slavo, venne perciò considerata poco osservante. Un certo vescovo Karlin, con la K, fece ben sette raccolte di fondi a sostegno della guerra austroungarica contro l’Italia. Mentre le inventate persecuzioni contro il clero slavo del fantasioso Gianni Oliva Sono destituite di qualsiasi fondamento. Nulla a che fare con le documentate persecuzioni titine dei sacerdoti, ben dodici furono massacrati, tra cui Don Angelo Tarticchio, evirato e costretto a portare una corona di spine a tangibile segno di civiltà progressista.Oltre a ciò il fantasioso storico Oliva si è inventato, per le giovani generazioni, che il governo fascista nel 1925 cambiò i nomi delle città istriane, italianizzandole, così Porec diventò Parenzo, Pula diventò Pola, e Koper diventò Capodistria e così via. Si può ben difficilmente immaginare uno storico più immaginifico di così e trarre le conclusioni sulla attendibilità del medesimo.

In ordine alla soppressione delle scuole slave va invece ricordato la riforma gentile che unificò obbligatoriamente, in tutto lo stato, la lingua d’insegnamento, e stabilì, non certo per scopi persecutori, che fosse l’italiano.La balla dell’obbligatorietà del cambio dei cognomi trova la più valida smentita nella attuata disposizione del Governo Militare Alleato che concesse il ripristino dei cognomi preesistenti prima dei cambiamenti avvenuti dal 1925 al 1943, ebbene su 19.093 cambiamenti avvenuti nell’epoca solo 421 casi di ripristino furono effettuati, corrispondenti ad altrettante richieste. I tarrocamenti dei cognomi, sistema ancora in uso dagli attuali occupanti, furono si effettuati, ma in epoca Asburgica dai sacerdoti slavi.

L’Istria subì due terribili invasioni nel 1943, quando prima le bande slavo-comuniste passarono la frontiera e cominciarono a perseguitare gli italiani, con complicità comuniste locali, e poi le SS che si presentarono con la divisione corazzata Prinz Eugen, liberando sì l’Istria dalle bande slavo comuniste di Tito, ma provocando anche morti tra la popolazione civile, per errore, rappresaglia o per bombardamenti, come quello di Pisino. Mentre i combattenti della RSI difesero con onore i confini della Patria pagando un prezzo terribile in termini di vite umane quando, a guerra terminata, furono portati a morire nei campi di sterminio slavi quali Borovnica e simili. Il giornalista Luciano Garibaldi ha letto quanto il senatore Franco Servello ha voluto tracciare come sue memorie di quella tragica epoca. Ricordando in particolare che mentre De Gasperi trattava il trattato di Pace, cercando di ammorbidire la pesantezza delle richieste dei 21 stati cobelligeranti vincitori, c’era chi lavorava per alienare all’Italia i territori della Venezia Giulia. Costui, un certo Palmiro Togliatti, preparò una memoria in base alla quale il plenipotenziario russo, Molotov, dichiarava essere la Venezia Giulia abitata da slavi, ed era quindi giusto venisse consegnata alla Jugoslavia comunista. Nel dopoguerra, ricorda, a Trieste con De Ferro e Ricci Giorgetti, poi ucciso dalle Brigate rosse, si attivarono per difendere il capoluogo giuliano dalle brame di Tito a fianco dei giovani triestini, di cui ben sei morirono sotto il piombo degli inglesi e della polizia civile, lasciando sul terreno ben 55 feriti. Ricordiamo in particolare i giovanissimi Paglia, Manzin e Pierino Addobbati assassinati a freddo.

Le associazioni degli esuli, in sessant'anni di presenza nazionale, non hanno hanno conseguito alcun risultato politicamente positivo per gli esuli dei quali molti, dopo aver passato la terribile esperienza dei campi profughi, vivono ancora nel disagio e nella povertà in attesa di un aiuto più consistente di un equo e definitivo indennizzo dei beni rapinati dagli slavi, e di cui il governo italiano si è servito per pagare i danni di guerra alla Jugoslavia. Fulvio Aquilante, vice Presidente nazionale della ANVGD e Presidente del Comitato Provinciale di Torino, giudica irrilevante quello che fanno Slovenia e Croazia, mentre è essenziale che le associazioni degli esuli siano interlocutori validi delle istituzioni che devono, ove possibile pretendere la restituzione dei beni dalla Slovenia e Croazia o un equo indennizzo dallo stato.

La tragedia di milioni di europei ha sconvolto la situazione della carta politica dell’Europa, ricorda Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione dgli Istriani. 14 milioni di tedeschi hanno dovuto lasciare Slesia, Pomerania, il Baltico come i Sudeti e sono oggi in contatto con noi esuli della Venezia Giulia, per sollecitare l’attenzione di una Europa disattenta a problemi di così grande rilevanza, in modo almeno di condizionare l’ingresso in Europa della Croazia, per un atto di giustizia verso coloro che sono stati privati non solo dei loro diritti di vivere ove sono nati, ma anche della possibilità di godere delle loro proprietà, rapinate con la prevaricazione del comunismo titino e mai ancora restituite.

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venerdì 15 dicembre 2006, ore 11:20
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e iteressante ellenico..ma io cercavo di dare un messaggio di pace ...specialmente adesso che siamo a natale.....
non dobbiammo farela somma dei deceduti ....di chi ne ha fatto di più destra o sinistra


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roy greich ha scritto:
e iteressante ellenico..ma io cercavo di dare un messaggio di pace ...specialmente adesso che siamo a natale.....
non dobbiammo farela somma dei deceduti ....di chi ne ha fatto di più destra o sinistra


Caro Roy Greich, non si tratta di contare le vittime a Destra, o a Sinistra. Ma si ratta di denunciare una delle più grandi ingiustizie della storia dell'umanità in cui purtroppo se ne parla poco o se ne conosce nulla.
Da italiano fiero, è giusto denunciare un male che ha ucciso migliaia di nostri connazionazionali. Spesso si parla sempre di Ebrei e olocausto(per carità, non sono pazzo come Ahmadinejad), ma è giusto parlare ogni tanto di vittme nostre.Ho dimenticato di spiegare una cosa: i testi sembrano carichi di odio, ma ho voluto mantenere l'originalità di chi ha scritto.
Ma assicuro che l'odio non è rivolto ad altre popolazione o a un'ideologia comunista in generale, ma verso le barbarie e le malvagità umane che hanno prodotto questa tragedia.

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lunedì 18 dicembre 2006, ore 11:49
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