 Sul fiume Gela, in Contrada Grotticelli, si trova la più antica diga di Sicilia. Essa fu fatta eseguire sin dal 1563 dalla Casa Ducale di Terranova, la quale per quest'opera destinata ad uso e consumo privato ebbe in compenso, dal Consiglio Civico della Città, circa 4.500 ettari di terre, (atto 18 dicembre 1565, Notaro Vincenzo Trabucco).
Nel 1920 la Casa Ducale, in forza di sentenze di Magistrati Italiani, dimostratisi molto più accomodanti dei Magistrati Borbonici, divenne proprietaria delle acque del fiume e quintuplicò arbitrariamente il canone di irrigazione dei vigneti, fissato nel regolamento del 1794. Mal volentieri gli interessati avevano subito il sopruso, ma nel 1925, quando la Casa Ducale volle calpestare un'inveterata consuetudine, imponendo personale proprio per irrigare terre altrui, gli interessati si ribellarono, tanto più che si preferiva buttare l'acqua a mare pur di non irrigare secondo la vecchia usanza. Le proteste furono unanimi e le autorità cominciarono a preoccuparsi della vertenza. Frattanto una sentenza della Suprema Corte di Cassazione aveva affermato che nemmeno la legge 16 Agosto 1922 n. 116, sul prezzo di vendita delle acque, autorizzava l'aumento degli antichi canoni di irrigazione. Da questa sentenza trasse nuovo impulso l'agitazione degli interessati, tanto più che il Prefetto di Caltanissetta (Pintor Mameli), illuminato dall'opuscoletto apparso nel gennaio 1926 (Diga Grotticelli e demani comunali), appoggiava apertamente le rivendicazioni dei proprietari dei fondi irrigui. D'accordo con lui fu decisa la costituzione di un Consorzio di Irrigazione, perchè gli interessati potessero meglio difendere i propri diritti e cercassero di venire in possesso della diga, dato che il fiume era stato incluso nell'elenco delle acque pubbliche della provincia di Caltanissetta.
Intanto cominciava a delinearsi il grave disastro causato dalla siccità e la responsabilità della Casa Ducale, che lo aveva aggravato buttando a mare notevoli quantitativi di acqua destinata all' irrigazione. I proprietari più animosi, appoggiati dal reggente della locale sezione di Cattedra (Dr. Scavone), portarono la vertenza al Convegno dell' aprile 1926, indetto in Roma dal Comitato promotore dei Consorzi di Bonifica. La denunzia fece impressione e la Casa Ducale, per attenuarla, mandò un proprio rappresentante al Convegno, per dichiarare che sarebbero stati eliminati gli inconvenienti di quell'anno e che il Duca avrebbe aderito al costituendo Consorzio; promessa poi non mantenuta.
Fu così che il problema della Piana di Gela, accompagnato da un'attiva campagna di stampa, varcò i confini della regione e fu portato davanti l'Amministrazione Centrale dello Stato. Ad agevolare questo compito contribuì in modo decisivo la istituzione dei Provveditorati alle OO.PP.. Il nuovo Ente, per affermarsi, faceva raccogliere dati sui bisogni dei singoli comuni dell' isola; Gela fu la sola a chiedere, con una petizione firmata da 3000 contadini, l'applicazione della legge sulle trasformazioni fondiarie al territorio della città. Il Provveditore, che era stato uno dei collaboratori dell'Onorevole Serpieri nella compilazione della legge, rimase impressionato della richiesta e non mancò di esprimere, in termini calorosi, la sua soddisfazione al Commissario Prefettizio al Comune che aveva trasmessa l'istanza. E il dott. Scavone fu incaricato di delimitare un comprensorio che meglio si prestasse all' applicazione della legge. Altro passo avanti quindi verso la soluzione del problema. Un altro passo si fece quando il Provveditore indisse a Palermo alcune riunioni per discutere sull'applicazione della legge in Sicilia, la prima dello Stato Italiano che fosse aderente alla realtà dell'isola: la delegazione di Gela dimostrò di essere la più agguerrita e la più preparata, non solo nelle discussioni ma anche nella campagna di stampa che le commentarono. Il disastro della siccità intanto maturava e i danni si rivelarono enormi: assommavano a una quarantina di milioni; e le Autorità, vivamente impressionate, invitarono il Provveditore a visitare la zona. Questi accettò l'invito e, resosi personalmente conto del disastro, invitò a Palermo un rappresentante dei fondi irrigui ed il Prefetto di Caltanissetta per esaminare a quali condizioni il Duca di Terranova sarebbe stato disposto a cedere la diga di Grotticelli. Poco tempo dopo fu costituito il Consorzio di irrigazione (Diga Grotticelli). Successivamente la Deputazione provvisoria del Consorzio riusciva ad attuare la trasformazione della chiusura della diga con un ingegnoso sistema a panconcelli che permetteva di utilizzare anche le acque di piena.
Nel dicembre del 1926 la gestione della diga Grotticelli fu affidata ad un commissario prefettizio, e dopo circa un secolo, il grido lanciato da un patriotta gelese nel 1842 < l'acqua del nostro fiume nelle mani di un privato è cosa troppo dura e insopportabile >, trova la prima eco; dieci anni dopo il privato era definitivamente estromesso. |
Nel XVI secolo i paesi costieri della Sicilia erano soggetti a frequenti incursioni non solo di nemici, ma anche di corsari africani. Il governo spagnolo pensò prudentemente di proteggere le coste con la costruzione di torri, disposte sul litorale in modo che dall' una si vedesse l'altra. Gli uomini destinati alla loro custodia avevano il compito di avvertire durante la notte la città più vicina accendendo tanti fuochi quante fossero le navi nemiche, o corsare, viste durante il giorno. Le varie torri comunicavano tutte tra loro, cosicchè in meno di un'ora l'avviso di un pericolo incombente faceva il giro dell'isola. Queste torri, tra cui quella di Manfria, nel territorio di Terranova, furono costruite a partire dal 1554, ad opera del vicerè Giovanni Vega, ed erano alla dipendenza della Deputazione del regno.
Il Parlamento Siciliano, nella seduta tenuta a Palermo il 9 aprile 1579, deliberò il finanziamento delle spese di manutenzione delle torri, nonchè del salario dei torrieri, della fornitura delle armi necessarie e del relativo munizionamento. In quell'occasione venne stabilita la concessione di un donativo di diecimila scudi annui per questa importante necessità e tutela di tutto il regno. Oltre a queste torri (in tutto trentasette, dipendenti dalla Deputazione del regno), ne furono costruite delle altre a cura dei Senati della varie città.
Sul litorale di Terranova, la torre di Manfria fu eretta nelle vicinanze del Piano della fiera, ove nei secoli passati c'era una famosa città, chiamata dagli storici Ancira, antichissima colonia di Eraclea Meridionale (Gela). Essa si presenta con un'architettura essenziale e volumetricamente regolare e spicca da una pianta quadrata, su un basamento parallelepipedo che serve da innesto ad un tratto a tronco di piramide, sovrastato da un volume chiuso con tetto a due falde. Due affacci diagonali a mensola permettevano ai torrieri di sporgersi oltre le pareti dell'edificio per meglio perlustrare il mare ed effettuare segnalazioni.
La torre di Manfria, detta pure di Ossuna, dal nome del vicerè Pietro Giron, duca di Ossuna, sorge su un poggio, sulla costa alta, a poca distanza dal mare. Il monumento, che ha subito nel passato grossolane modifiche, si presenta oggi in precarie condizioni statiche, ed è abbandonato alla furia degli elementi atmosferici e dei vandali. |
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