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Storia ed Arte a Gela
I Pinaches
Col nome di pinaches si indicavano in Grecia le tavolette votive spesso ignote, che si appendevano alle immagine della divinità, sulle pareti dei santuari o degli alberi sacri; Eschilo ne parla nelle supplici, Aristotele nella Politica, Strabone nell'VIII libro della Geografia.
L'esempio più cospicuo di questo genere di ex voto è dato dai rilievi di terracotta di Locri Epizefiri dei primi decenni del V sec. a.C. che rappresentano l'imitazione di quadretti di lamina sbalzata.
Dei veri e propri quadri dipinti su legno sono noti nel VI sec. a.C. su preziosi esemplari di Pitsa (villaggio nei pressi di Corinto) con scene rituali di sacrifici.
Il più antico esempio di decorazione eseguita a mezzo di tavole dipinte per una grande composizione è quello di Polignoto di Taso alla Stoà Poikile di Atene.
Nell'età di Pericle si afferma l'uso di dipingere su tavole, e non più su tela e legno, forse con Apollodoro.

Accanto alla produzione di maggiore impegno si pratica nel V sec. a.C. una pittura per così dire di modesti ex voto, i quali continuarono a prodursi dopo la decadenza della megalografia.
Infatti nel II e I sec. a.C. la produzione pittorica si esauriva nei Pinakes dei santuari, i cui soggetti, scene di sacrificio, apparizioni di divinità ecc. avrebbero ispirato il II e il IV stile delle pitture pompeiane.

L'uso di tavolette è attestato da Plinio il vecchio e da Tibullo in una sua elegia.
Indicativa è anche l'identità del nome pinacotheca, usato per definire tanto un santuario ricco di quadri (Strabone) quanto una parte della casa romana destinata alla raccolta di pitture (Vitruvio).
Con il passaggio dalla religione pagana a quella cristiana, se cambiarono i soggetti dipinti, fermi rimasero l'animus e la religiosità del committente e del pittore, spesso anonimo.
Quella "miliardaria arte povera", come è definita la pittura degli ex voto, che ha un enorme valore dal punto di vista etnografico ed antropologico, in cui si sposano arte e fede popolare, solo da alcuni decenni è valorizzata; ne sono testimonianza le mostre di detti quadri tenute a Tolentino, con i miracoli o grazie ottenute tramite San Nicola da Tolentino e la Madonna dell'arco, vero e proprio campionario di guai, di drammi grandi e piccoli, che affliggevano (e affliggono) il popolo italiano, cui può far fronte una provvidenziale apparizione o intercessione.
Le immagini delle tavolette votive parlano da sé, con la forza dell'ingenuità e della immediatezza.
Esse illustrano i più inverosimili pericoli scampati dai fedeli, eseguite o dagli stessi interessati o commissionate ad approssimativi artigiani, che ricostruivano la scena culminante del prodigio, quando il pericolo era pressante e drammatico e più si era fatto urgente l'intervento celeste.
Una valanga di microscopiche opere d'arte povera copriva molte pareti di numerosi santuari, oggi un po' meno, a causa dello scempio della civiltà moderna; esse con la smania di ammodernamento vennero smontate "scelte, chissà con quale criterio!
Tra i santuari che contengono pinakes è da ricordare soprattutto quello alle falde del Vesuvio, della Madonna dell'arco, che ne possiede circa 4.000 (superstiti), con scene di assalti di animali, di briganti, di ladri generici, di legnate, di battaglie.

Le tavolette più preziose sono quelle dipinte fra il 1500 e il 1700 con Sant'Antonio abate, San Giuseppe, San Rocco, S. Francesco d'Assisi, S. Francesco di Paola e S. Gennaro; e poi sant'Anna e sant' Eligio con santa Rosa, e poi il Padre Eterno, non prima però del '700 e della Madonna e santa Margherita dei primi del 900.

I mali scampati sono a mucchi, a valanghe: duelli, risse, eruzioni del Vesuvio, estrazioni di denti, fidanzamenti sbagliati, incidenti di caccia, di casa, marinari, incendi, parti difficili, spiriti maligni, terremoti, temporali, naufragi, cadute da altissime scale o da finestre, da balconi, da cavalli, da carrozze, da treni, o nei fossi, o nei pozzi, burroni; per non dire di cittadini calunniati restituiti al loro buon nome o salvi dopo terribili incontri con camorristi.
Meno male che, sul trascurato universo dei pittori votivi, che spazia dai secoli più lontani ai nostri giorni, si sono venuti concentrando gli interessi di storici, delle religioni, letterati, collezionisti ed esperti di folklore, che ne hanno sottolineato l'importanza documentaria per lo studio dei più diversi campi: l'economia, l'abbigliamento, i mezzi di trasporto, gli arredi, gli strumenti e le tecniche di lavoro, il paesaggio agrario ed urbano, nonché gli usi e i costumi.
Nelle tavolette votive c'è il costume di diversi secoli: la storia, le invasioni, le paure, i modi di vivere, la mentalità, le case, etc. illustrati in modo ingenuo, ma puntuale e spesso accompagnati da una cronaca essenziale.

Qualche volta il pittore, piuttosto abile, ha saputo persino sottolineare l'identità e i sentimenti delle persone ritratte, ma nella stragrande maggioranza dei casi è pressocchè impossibile conoscere l'autore dell'ex voto, che probabilmente doveva appartenere alla categoria artigiana degli affrescatori, tinteggiatori, decoratori e simili. L'impegno dell'artista consisteva nel rappresentare quel soggetto prescelto, secondo i canoni della tradizione.
Il quadro doveva suscitare forti emozioni, essendo recepito da un pubblico privo in gran parte di cultura, ma animato da spiritualità e fede. "Più il fedele guardava il quadro, più si doveva ricordare di colui che poteva aiutarlo".

Le tavolette si avvicinano alla produzione di stampe devote o pitture su vetro o pitture sui carri di argomento religioso.
Esse possono recare un valido contributo per la ricomposizione della storia religiosa del nostro Paese.
Oggi si parla di "arte naif", a proposito di esse, nel senso di un'arte semplice ed ingenua, ma ricca di particolari suggestioni poetiche, popolare soprattutto per l'uso a cui esse erano destinate, e non ritenendo l'aggettivo come sinonimo di subalterno, rispetto ad una cultura figurativa colta, in cui arbitrariamente sono stati distribuiti i prodotti artistici per la pigrizia intellettuale degli addetti ai lavori.
Certo un prevalente consumo si ebbe presso determinati ambienti, per il meccanismo ideologico che portò (ed anche oggi porta) all'uso di tale prodotto non è mai stato appannaggio di nessuna classe sociale, come di nessun popolo, di cui riflette la fede, la soffeenza, la tragedia della gente povera o divenuta umile e annichilita di fronte al dolore, al pericolo e alla morte.
Il bisogno di una definizione espressiva angosciosa e paurosa deriva dalla necessità di una persuasione immediata per riconoscere l'aspetto di fatti prodigiosi, come le riproduzioni in lamina argentata di organi corporali: occhi, faccia, gambe, cuori, per testimoniare i miracoli per intercessione.
La scelta del legno era essenziale per assicurare la solidità e la durata del dipinto, come la validità dello "scritto pittorico". Si doveva manifestare nell'equilibrio della composizione, nella limpidezza del disegno, nell'armoniosa distribuzione del colore appropriato, mentre l'avvenimento che esso doveva descrivere veniva rappresentato in primo piano.

Il canonico Rosario Damaggio nella sua opera "Storia della devozione al SS. Crocifisso della Chiesa del Carmine di Terranova di Sicilia" si valse, come guida, dei quadri votivi appesi nell'arco maggiore della chiesa omonima, non sapendo spiegarsi perché tanti altri quadri votivi che anche i suoi parenti ricordavano, compresa la madre che aveva ottantotto anni, non esistevano più e chiedendosi il perché di tanto vandalismo. Egli affermava di aver visto un quadro del 1655 in cui era rappresentata D. Caterina Marino, figlia del capitano d'armi di Piazza, che trovandosi a villeggiare in questa città, mentre un giorno si affacciava al balcone, per la rottura della balaustra, precipitò al suolo, ma invocato il Crocifisso, fu raccolta a terra perfettamente illesa.
Un altro quadro votivo rappresentava la guarigione, ad opera del Crocifisso, del principe di Roccella D. Gaspare La Grutta, già dispensato dai medici per una grave infermità.
Un altro pinax ricordava un mancato naufragio avvenuto nel 1683 ad alcuni marinai in navigazione per Messina.

Un altro portava questa scritta "Tempesta passata la notte del 12 dicembre 1890 allorché la tartana "Nuova Lucia", capitano Nicolò Biondi, non potendosi più governare, fu sbalzata 15 miglia dal monte Argentaro, mentre un altro ancora era lapidario 20/25 ottobre 1891, goletta SS. Crocifisso. Invece un altro quadro votivo rappresentava il "cutter" Nuovo Giuseppe" 20/11/926, che mentre si trovava tra Palinuro e Capo Licosa, fu sorpreso da un forte temporale di ponente e libeccio. L'equipaggio, composto dal capitano Tandurella Vito e cinque marinai, non potendo più governare la nave perché lacerate le vele e mentre le onde spazzavano la sopracoperta, ricorse ai soccorsi celesti invocando Gesù Crocifisso e si salvò approdando alla rada di Scario.
Non si deve credere che i pinaches della chiesa del Carmine rappresentassero solo scene di tempeste in mare; come si evince dallo scritto del canonico Damaggio, rappresentavano eventi "miracolosi" di diverso tipo, ma i quadri rimasti sono solo quelli di marinai, perché essi sono i più devoti frequentatori della chiesa e del Crocifisso, e li hanno salvati dallo scempio che si fece in occasione dei lavori di restauro della chiesa di vari pinaches che furono bruciati per la scarsa considerazione che su di essi avevano gli addetti ai lavori.

Mentre in Calabria il santo protettore dei marinai era ed è S. Francesco di Paola, a Terranova era la Madonna S.M. di Portosalvo, a cui era dedicata la chiesa che attualmente si chiama S. Giacomo. Successivamente per i numerosi miracoli compiuti dal Crocifisso, gli abitanti con fede si rivolsero a Lui, soprattutto coloro che lavoravano sul mare, ed erano esposti ai pericoli della "Draunara".
Non per nulla sulla facciata della chiesa del Carmine è scritto: "In mare irato, in subita procella invoco te, Nostra Benigna Stella."

D'altra parte uno dei primi miracoli del Crocifisso avvenne sul mare, poiché, come racconta sempre il canonico Damaggio, riprendendo da un altro illustre storico nostro concittadino Benedetto Maria Candioto, il Duca Pignatelli, signore di Terranova, volendo mandare una croce spruzzata del sangue del Crocifisso a Castelvetrano, mise a repentaglio la vita dei marinai a cui l'aveva affidata, a causa di una tempesta Essi, calata sulle onde la croce, placarono il mare.

Oggi solo 12 pinaches testimoniano della grande fede dei marinai al Crocifisso.
Tutti questi dipinti ci fanno capire quanto era numerosa la flottiglia terranovese e quanti marinai si imbarcassero per andare in zone, per quei tempi molto lontane, come i capitani fossero esperti conoscitori di luoghi rivieraschi anche pericolosi, ma anche quanta fede vi fosse in loro. Le loro brevi dediche sanno della brevità ma anche dell'esattezza dei giornali di bordo che dovevano compilare. Il fatto che in alcuni quadri il Crocifisso sia stato incollato si spiega come tanti di essi uscissero dalla stessa bottega, per cui ogni committente poteva mettere l'immagine del santo per lui miracoloso. In quanto alle iniziali V.F.G.A. esse potevano essere sostituite da P.G.R. (per grazia ricevuta).
 
Il Castelluccio di Gela
Su una collina di gesso, dove il Gela sbocca nella piana dopo le gole del Disueri, si erge maestoso il Castelluccio a guardia della costa e a difesa del percorso verso l'interno lungo la valle del fiume.
La menzione più antica del Castelluccio ci è pervenuta in un atto di donazione del 1143 con il quale Simone, conte di Butera e membro della famiglia Aleramica, dona all'abate di S. Nicolò l'Arena di Catania, alcune terre site nell'area meridionale della contea perchè le faccia mettere a coltura: il Castelluccio viene citato come termine di confine all'estremità orientale dei beni assegnati al monastero. Lo stesso termine, ora in latino Castellucium, e con riferimento allo stesso sito, compare ancora in un documento del 1334 col quale la regina Eleonora conferma allo stesso monastero gli stessi beni.

Un altro documento, ricordato da autori del XVII e del XVIII secolo, conferma la donazione del Castelluccio da parte di Federico d'Aragona a Perollo di Moach milite caltagironese: i beni ubicati nel territorio di Eraclea comprendenti il Castelluccio ed i territori circostanti sarebbero stati assegnati in precedenza ad Anselmo di Moach ed in seguito confermati al pronipote Perollo. Da questo documento emergono due elementi interessanti: in primo luogo che l'edificio attuale (o un edificio comunque fortificato definito Castelluccio) esisteva nella pianura gelese, ed in secondo luogo che tale edificio, di proprietà del demanio regio, era stato concesso in feudo già nel corso del XIII sec.
Ben poco si conosce delle vicende successive: l'edificio sarebbe stato assegnato da re Martino al nobile Ruggero Impanella alla fine del XIV sec., ma essendosi il nobile allontanato senza autorizzazione regia, verso la metà del XV sec., re Alfonso gli avrebbe revocato il possesso della rocca che avrebbe assegnato, con i terreni circostanti, a Ximene de Corella coppiere regio. Quindi attraverso gli eredi, il Castelluccio sarebbe passato al patrimonio degli Aragona di Terranova e quindi dei Pignatelli.

Costruito in parte riutilizzando i blocchi di calcare bianco e calcarenite gialla del muro greco di Caposoprano ed in parte a filari regolari di pietra sgrossata, esso presenta un raro rigore formale nella definizione generale e nei particolari architettonici, tutti tesi alla concreta funzionalità, spogliata di ogni indulgenza decorativa.

Il cantiere di restauro, impiantato nel 1988 con fondi dell'Assessorato Regionale del Turismo, e lo scavo archeologico dell'interno, ci restituiscono un Castelluccio rigorosamente simmetrico che chiude con una fine violenta la prima fase di vita.
Una seconda fase vede la profonda trasformazione della parte orientale con l'inserimento del camino con fasci di colonnine trecentesche alla base l'apertura di una monofora sul prospetto settentrionale e la costruzione della torre est.

Dopo un altro incendio che chiude questa fase sarebbe seguito un abbandono temporaneo dell'edificio, col crollo dello spigolo settentrionale della torre est e quindi nel XV sec. (probabilmente in concomitanza con analoghi lavori nel Castello di Mazzarino), un tentativo di trasformazione del castello in Palazzo; furono sopraelevati i muri meridionale e settentrionale (impostati sopra la merlatura originale), restaurato lo spigolo crollato della torre est e la vecchia struttura subì una serie di adattamenti.

Nel corso dei lavori (forse a causa di un terremoto?) il castello si lesionò profondamente. I1 cantiere fu interrotto e l'edificio abbandonato.
Bombardato dagli incrociatori alleati l'11 luglio del 1943, subì il crollo di parte della torre est e dell'estremità orientale del prospetto sud.
 
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